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Carteggi, epistolari e tutte quelle “scritture dell’io” che la storiografia tradizionale ha sempre visto come una semplice testimonianza della vita privata di individui, nella misura in cui essa considerava la sfera intima come un qualcosa di nettamente separato dalla sfera pubblica. La ricerca di Giuseppina Russo

La storia dell’arte ci insegna che esiste la pittura di genere, pittura che si traduce con la pratica delle così dette scene di genere, ossia tutte quelle rappresentazioni tratte dalla vita quotidiana, le cui tematiche sono ben lontane dalla pittura storica o religiosa, e proprio per questo a lungo considerata un’arte “minore”. Eppure grandi artisti del calibro di Annibale Carracci o Caravaggio si sono cimentati con la pittura di genere senza che questa apparisse meno nobile rispetto a quella storico-religiosa. Accade così che canestre di frutta o macellerie oggi siano esposte insieme alle più celebri crocifissioni.

Certo, non mancano opere a carattere religioso o storico nel curriculum di questi artisti. Caravaggio, per esempio, dipinge alcuni tra i suoi maggiori capolavori tra un “Buona ventura” e l’altro. Realizza, per esempio durante il suo soggiorno Napoletano la “Flagellazione di Cristo”, “Le sette opere di misericordia” (solo per citarne alcune) dipinte in qualche vicolo dei Quartieri Spagnoli di una Napoli che ancora li custodisce.

Mi riesce facile, davanti ad uno di questi dipinti, visto proprio in occasione del mio ultimo soggiorno napoletano, proiettarmi nella Napoli del 1600. La storia percorre le strade di questa città insieme ai suoi abitanti, attori più o meno consapevoli delle sue chiassose strade.

Napoli appare antica con il suo antico quanto imponente Vesuvio: dà il benvenuto a chi arriva, inciso (oggi come allora) dai sentieri tracciati dalle colate laviche e dalle case che si arrampicano lungo i suoi pendii.

Arrivati a Napoli si viene accolti dal vociare della gente. I canti dei venditori come il coro delle sirene di Ulisse ci incatena: ci costringe ad osservare i banchi dei presepi, le vetrine con i dolci esposti. Per le strade alcuni ragazzi intonano tarantelle armati di tamburelli e fisarmoniche.

A Napoli si sedimentano secoli di storia, di vita artistica e letteraria. Svevi, Angioini, francesi, spagnoli e austriaci sono passati per questi luoghi modificandone per sempre i suoi tratti che oggi la rendono così caratteristica.

Ecco, Napoli me la immagino sempre così, sempre uguale eppure sempre mutevole nei secoli. Chissà, forse sarà apparsa così anche a Caravaggio al suo arrivo, come un paradiso abitato da diavoli.

È proprio qui, mentre ancora rivedo quella pittura di genere compiersi per le strade di questa città, che incontro Giuseppina Russo (Giusy per gli amici), a metà strada tra il 1600 e gli anni contemporanei. La incontro precisamente tra il 1848 e il 1860.

Parliamo di Storie di genere, non molto lontane da quelle della storia dell’arte. Sono gli anni in cui l’Italia non è ancora Italia, e ovunque c’è fermento rivoluzionario. Sono anche gli anni dei moti siciliani del ’48, della costituzione concessa dai Borbone, delle cinque giornate di Milano. Dai suoi racconti sembra quasi di vederla la Napoli delle lotte risorgimentali. Giusy inizia la sua ricerca dal fondo Poerio - Pironti dell’Archivio di Stato di Napoli.

Protagoniste di questa Storia sono delle lettere, quelle sgrammaticate scritte da chi si confronta con la scrittura forse per la prima volta, facendone più una necessità personale che un tentativo di letteratura. A intingere la penna nel calamaio di questa piccola/grande Storia sono le donne del risorgimento italiano, quelle che dalla storiografia ufficiale non vengono citate per aver contribuito ad aver “fatto l’Italia”.

 

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Lettera tratta dal fascicolo di Carlo Poerio dal carcere (clicca per ingrandire)

 

«Mentre sono noti a tutti i nomi degli “uomini” che hanno operato per unificare l’Italia, non è altrettanto noto il contributo femminile alla stessa causa. Le corrispondenze epistolari sono documenti ai quali spesso non viene data la giusta importanza» — dice Giusy — «Questo voluto vuoto di memoria è stato denunciato dalla storia sociale e in particolare dai gender studies emersi da pochi decenni, che hanno riletto la storia risorgimentale sia mediante un rinnovato approccio metodologico allo studio delle fonti di quel periodo, sia prendendo in considerazione nuovi documenti cui fino a poco tempo fa non è stata data debita importanza. Parliamo di carteggi, epistolari e di tutte quelle “scritture dell’io” che la storiografia tradizionale ha sempre visto come una semplice testimonianza della vita privata di individui, nella misura in cui essa considerava la sfera intima come un qualcosa di nettamente separato dalla sfera pubblica. Ciò ha penalizzato soprattutto le donne che, risultando quasi del tutto assenti nei documenti ufficiali, quindi pubblici, furono invece le indiscusse protagoniste dei carteggi e dei diari ottocenteschi» — mi racconta Giusy, spiegandomi il suo lavoro di tesi in Storia di genere, coordinato dalla docente Laura Guidi dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

Questo lavoro di ricerca si è concentrato sulla corrispondenza di tre detenuti politici meridionali: Michele Pironti, Carlo Poerio, Giovanni Nicotera i quali hanno goduto, durante gli anni di detenzione, del sostegno morale e in parte materiale, delle proprie madri, figlie, mogli, sorelle (Cecilia Dono, Caterina Trippitelli, Nina Poerio, Giuseppina Masciullo, Margherita Pironti, Antonia Poerio).

Le “donne di Giusy” sono garanti di solidarietà affettiva e materiale e sono in grado di costruire una rete di mediazione numerosa e ratificata.

Sono virili, come le descrive Laura Guidi precisando come questo aggettivo sia diverso da mascolino. Virile infatti, riguarda una serie di virtù morali fino ad allora attribuite solo agli uomini quali il coraggio, la maturità, l’impegno e che da questo momento si possono attribuire anche alle donne, le quali sfruttano a proprio vantaggio tutti gli stereotipi a loro associati per raggirare le autorità borboniche.

 

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 Lettera scritta da Nicotera e indirizzata a Nina Poerio, la sua fidanzata (clicca per ingrandire)

 

Questo designa l’inizio della fluidità dei ruoli di genere, ora che le donne sembrano più interessate a partecipare alla vita pubblica e culturale al fianco degli uomini, necessità che inizia durante gli anni del Risorgimento, quando la costruzione di una patria comune sembrava più importante di qualsiasi altra cosa, e che ritroviamo anche durante la prima Guerra Mondiale quando le donne, sostituivano nelle fabbriche gli uomini impegnati sul fronte.

Viene da chiedersi perché dare tutta questa importanza a questi carteggi e perché (di conseguenza) per i detenuti le raccolte epistolari fossero di così vitale importanza?

Dal lavoro di Giusy emerge come il carcere condanni ad un duro isolamento dalla società e soprattutto di quanto condanni a privazioni affettive. Chi subisce tale condanna chiede l’affetto dei propri cari che può essergli garantito proprio grazie alla scrittura. La lettera diventa un legame, una presenza fisica, un conforto che regola i rapporti di assenza e presenza tra i carcerati e i propri cari. La mancanza di lettere, al contrario, viene avvertita come assenza e vuoto.

D’altronde lo stesso Cicerone definiva l’epistola come amicorum colloquia absentium.

 

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La lettera sgrammaticata e disordinata scritta da Cecilia Dono, che aiutava i detenuti in tutti i modi.
(Clicca per ingrandire)

 

Per i detenuti la lettera diventa l’unica fonte diretta e affidabile di notizie, permette ai soggetti di dialogare, ma soprattutto (cosa forse tra le più importanti) diventa un modo per dare un senso al tempo immobile della prigione. Le lettere sono spesso corredate da oggetti di uso quotidiano: un calendario, per esempio, importante per non perdere il senso del tempo, o la caffettiera, oggetto che rimanda all’importanza di rinnovare delle abitudine quotidiane. Qualcuno addirittura “allega” posate d’argento, che stridono certo con il rude aspetto del carcere, e forse proprio per questo necessarie. È un modo per evocare, anche solo lontanamente un’atmosfera domestica, un’atmosfera quotidiana. Si ricostruiscono in questo modo, ancora una volta quelle scene di genere, quelle immagini domestiche tanto care alla storia dell’arte.

Le conclusioni di questo lavoro sono chiare già dalle primissime parole scritte, ossia quelle contenute nella dedica che Giusy fa alle sue nonne «integre figlie, sorelle, mogli e madri […] umili, ma non sottomesse, pazienti ma mai rassegnate».

 

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“Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis David

 

A questo punto della storia è ancora una volta un dipinto che ci aiuta a capire i contesti e i racconti. La stessa Giusy si fa aiutare dalle immagini per raccontare e cita “Il giuramento degli Orazi” di Jacques Louis David.  «Le donne vengono inserite, sofferenti e piangenti, in un angolo in disparte del quadro (raffigurante la sfera privata) che invece è dominato dalle figure dei “loro” uomini, eroi romani che si sacrificano per la fedeltà e l’amore verso la patria (raffigurante la sfera pubblica). Ma è evidente come questo dipinto faccia ormai parte del passato» — mi spiega Giusy — «Le protagoniste di queste storie, pur cercando di accettare e adattarsi ai ruoli e agli ambiti a cui i discorsi ufficiali volevano destinarle, in realtà, nel loro intento di aggirare il sistema repressivo borbonico per sostenere in mille modi i loro cari, agirono, consapevolmente o meno, in maniera trasversale tra la sfera pubblica e quella privata, dimostrando esplicitamente che i due ambiti erano ormai inseparabili e le donne, del canto loro, non potevano più essere collocate in un angolo nel quadro della Storia, ma dovevano diventarne le protagoniste insieme agli uomini. Sfruttarono insomma a loro vantaggio, lo stereotipo che le vedeva come indifese e incapaci di agire nel nome del patriottismo». E così con l’immagine di un altro quadro, termina l’incontro tra me e Giusy. A me non occorre sapere altro. Mi basta avere queste immagini a portata di mano.

Napoli è ancora la. Vista da Posillipo adesso, appare stranamente silenziosa. La città è sotto i nostri occhi, castel dell’ovo si spinge in mare come una quinta. La città è adagiata a mo di anfiteatro: i due archi naturali, la collina di Capodimonte. Le urla della strada si dissolvono finché il rumore assordante dei motorini ci riporta ai nostri tempi dove è evidente che a mettere le parole alle immagini, ci vuole arte. Sempre.

Gli autori di Vorrei
Caterina Guerrieri
Caterina Guerrieri

Dopo quasi dieci anni di camminate in giro per l’Italia e la Francia, sono ritornata ad Altamura, il paese in cui sono nata nel 1987 e che avevo lasciato per motivi di studio. Mi sono laureata nel 2012 in Restauro e Conservazione di dipinti su tela all’Accademia di Belle Arti di Lecce. Quando capita faccio anche la restauratrice, ma nel resto del tempo mi dedico alla scrittura e al disegno (le mie grandi passioni) e collaboro con l'associazione culturale “Link”, che si occupa di mobilità giovanile e interculturalità.

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