Comizio Pd

Una propria visione del mondo e gli impegni fondamentali, lungimiranti ma concreti, per perseguirla.

Recentemente Romano Prodi, alla domanda sulla sua possibile scelta tra i candidati  al ruolo di segretario del PD, ha risposto di non essere in grado di esprimerla a causa della mancanza di conoscenza dei programmi dei candidati, e delle relative differenze.

Ora questi programmi sono stati presentati, nella forma delle mozioni sottoposte al voto. E si tratta di elaborati di notevole spessore politico, che depongono a favore della classe dirigente del PD. Non entro nel merito dei contenuti, quasi tutti condivisibili, da cui non emergono divergenze di rilievo.

Ma non credo che la scelta del segretario avverrà sulla base dei contenuti delle mozioni. Sono convinto che, chiunque sarà il vincitore, il PD nel suo insieme, come riferimento obbligato della sinistra dovrà esprimere in un “manifesto” la propria visione del mondo e gli impegni fondamentali, lungimiranti ma concreti, per perseguirla. Questo manifesto dovrebbe costituire la base di una rifondazione essenziale dopo la ultime sfortunate vicende. Forse esagerando direi: non ci sarà rifondazione senza un manifesto.

Ma che cos'è un manifesto? Per tentare una risposta, non facile, sono andato prima di tutto a rileggere il “Manifesto dei Valori del partito democratico”, approvato il 16 febbraio 2008. Questo documento, che definisce il Partito Democratico come «lo sviluppo e la realizzazione dell’Ulivo», in realtà non è un manifesto: è un “discorso”, di alto respiro, nel quale si nota l’impronta di Walter Veltroni. Perché dico che non è un manifesto ma un discorso? Perché i manifesti dovrebbero presentare due aspetti: una premessa “visionaria” di chi lo propone, contenente i principi e gli obiettivi fondamentali, e un elenco, spesso numerato (come i decaloghi), di impegni strategici per realizzare quei principi e conseguire quegli obiettivi. In sostanza, un manifesto assomiglia molto a una costituzione.

I discorsi sono importanti, ma per lo più, salvo grandi e storiche eccezioni, parlano solo alle élite, mentre i manifesti possono entrare nella memoria di grandi numeri di persone.

Negli ultimi anni, le nostre destre hanno costruito i loro successi su “contratti”: il “Contratto con gli italiani” di Silvio Berlusconi, e ora il “Contratto per il governo del cambiamento” tra la Lega e il M5S.

A differenza dei discorsi della sinistra, i contratti sono numerati, cioè sono espressi in articoli. Ma quello che manca, nel testo e nella sostanza dei contratti, è l’espressione di una visione comune, perché oggettivamente mancante, data la diversità di vedute dei contraenti, spesso opposte (nel caso di Berlusconi il contraente era addirittura uno solo, lui).

Quindi, dopo il congresso, i maggiori esponenti del PD dovrebbero metter mano insieme a un manifesto vero e proprio. Un manifesto basato sulla ricerca di ciò che unisce, contro la tendenza storica delle sinistre di ricercare le differenze su cui imperniare le loro lotte di potere. Un manifesto rivolto non a un supposto “popolo della sinistra” che non c’è più, ma a tutti gli elettori, perché concepito come meritevole del consenso della grande maggioranza dei cittadini (il 99%, secondo i sostenitori di Occupy Wall Street, e magari anche di qualcuno dell’1% residuo).

Nel contesto delle mozioni presentate dai candidati alla segreteria del PD è possibile, con qualche fatica, estrarre i principi e gli obiettivi fondamentali e gli impegni specifici per conseguirli. Ma ho notato che nelle citazioni, compresa la pur ricca e importante bibliografia del testo di Zingaretti, non compaiono personaggi, tra cui alcuni premi Nobel, che hanno fornito importanti orientamenti per una politica globale della  sinistra. Personaggi come Amartya Sen, Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Anthony Atkinson, Paul Krugman, Rutger Bregman, che ho avuto occasione di commentare su questa rivista nell’ottica della riduzione delle disuguaglianze e della povertà. Sorprendente è lo scarso o nullo riferimento a Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, che con i suoi numerosi scritti e in particolare con la sua intervista pubblicata con il titolo “Il piano inclinato” (Il Mulino, 2017) fornisce indicazioni preziose per un manifesto della sinistra. Neanche Walter Veltroni, primo segretario del PD, trova spazio adeguato. Come dire che le vere radici del PD, come proposta della sinistra riformista del XXI secolo, sono trascurate, prospettando  un partito magari altamente razionale, ma privo di un’anima.

Senza alcuna pretesa di rigore e completezza, nella veste di un semplice cittadino moderatamente attento alle vicende politiche, indico qui di seguito alcuni punti che potrebbero trovare posto nel manifesto, dopo adeguata riflessione.

- Una visione basata su due finalità fondamentali, proprie della sinistra: la riduzione delle disuguaglianze e della povertà come elemento determinante di una crescita umana, sociale ed economica inclusiva, e la tutela dell’ambiente.
- L’indicazione di due strumenti fondamentali per realizzare la visione: 1) la cultura in senso lato (come insieme di attività umanistiche e scientifiche, educazione civica, ricerca, istruzione, formazione permanente. Come dire: puntare sullo sviluppo della persona umana e sul futuro delle nuove generazioni; e 2) la gestione attiva del lavoro.
- Ci si potrebbe impegnare ad aumentare la risorse per la cultura riducendo proporzionalmente quelle per la difesa (come suggerisce Raul Caruso), secondo una strategia necessariamente internazionale; per il lavoro si dovrebbe contare soprattutto sulle imprese innovative come generatrici di occupazione, e sullo stato come datore di lavoro di ultima istanza, con forme di servizio civile (anche per gli immigrati) e in collaborazione con il volontariato. E iinoltre: riduzione delle differenze eccessive tra le retribuzioni, da agganciare alla produttività, salario minimo e limiti agli orari di lavoro. Lotta al lavoro nero;
- Un reddito di inclusione, o di cittadinanza, o di base che dir si voglia, destinato ai meno abbienti, senza condizioni, cioè svincolato dalle politiche del lavoro, come suggerisce Rutger Bregman, in base al  criterio secondo cui  prima di insegnare a pescare occorre dare a una persona indigente la forza per pescare (se è in grado di farlo), confidando sulla ragionevolezza della grande maggioranza delle persone in povertà (altro che fannulloni!);
- Una politica migratoria liberata dalla paura del diverso, regolata in permanente collaborazione con le istituzioni internazionali, i paesi di origine e di destinazione, ma basata sui principii prioritari dell’accoglienza e dell’integrazione. Niente muri né porti chiusi.
- Una politica estera ispirata al principio “si vis pacem, para pacem”, promuovendo il disarmo.
- Si potrebbero riprendere le proposte ispirate da James Tobin, di contrasto alla finanza fine a sé stessa, che suggeriva di destinare i proventi delle relative imposte alla riduzione della povertà; e seguire il suggerimento di Piketty secondo cui un accordo tra i paesi più ricchi sulla finanza e sulle politiche fiscali indurrebbe gli altri ad allinearsi;
- Una politica estera e interna ispirata al principio di sussidiarietà, tale da risolvere attraverso il dialogo i contrasti tra diversi livelli di governo, tra sovranisti, europeisti e organismi sovranazionali, così come tra centralisti ed autonomisti all’interno delle nazioni storiche (si può essere senegalesi, francesi e napoletani nello stesso tempo, come ha detto Kalidou Koulibaly!);
- Un sostegno alle organizzazioni non governative (ONG) per l’assistenza ai paesi più poveri. Portare il livello degli aiuti ai paesi arretrati all’1% del PIL, destinandoli a infrastrutture e strutture sociali (scuole, ospedali), impiegando risorse umane e prodotti locali;
- Una politica di difesa dell’ambiente, imperniata sulla progressiva riduzione del ricorso a fonti fossili a favore di quelle rinnovabili, sul blocco del consumo di suolo come principio, salvo eccezioni d’interesse pubblico, condizione per il recupero di aree dismesse e degradate; incentivi alla circolarità dell’economia;
- L’impegno a reperire risorse non con l’aumento del debito pubblico, fardello insopportabile per le nuove generazioni, né aumentando la pressione fiscale. L’uno e l’altra dovrebbero al contrario diminuire. Le risorse andrebbero reperite con la lotta all’evasione fiscale e la revisione della spesa pubblica, che hanno giù dato buoni, ma insufficienti, risultati e presentano ancora ampie prospettive di recupero di risorse; con la difficile lotta agli enti inutili e a corporazioni presidiate da lobby molto potenti, forse il maggior nemico delle riforme; e con l’aumento della produttività della Pubblica Amministrazione, da condurre con la collaborazione degli stessi dipendenti pubblici.
- La riduzione delle imposte sulle attività produttive e sulle famiglie dovrebbero essere conseguite aumentandone la progressività (vedi in proposito le recenti proposte di Paul Krugman su la Repubblica dell’11 gennaio scorso), e una esplicita tassazione dei patrimoni più ingenti, in gran parte frutto di rendite, successioni, donazioni.
- Un uso positivo dei social network per comunicare i propri impegni e comportamenti e come mezzo di dialogo e partecipazione democratica.

Un manifesto è sempre un rischio: potrebbe essere perdente di fronte all’ondata populista che oggi imperversa come uno tsunami. Ma potrebbe anche essere vincente, dopo il probabile fallimento dei populisti. La sconfitta sarà invece e sicuramente garantita se gli elettori non capiranno, come adesso, che cosa la sinistra e il PD veramente sono e propongono.

Concludo con una citazione di Rutger Bregman, autore di “Utopia per realisti” (Feltrinelli, 2017):

«Tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per timore di perdere voti. Ho cominciato a definire questo atteggiamento il fenomeno del “socialismo perdente”… Ma il più grosso problema del socialismo è che è noioso, barboso. Promette un paradiso triste».

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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