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Agamennone aveva decretato che fosse strappato ogni legame amorevole tra i troiani maschi da una parte, destinati alle isole dei Lotofagi, e le troiane destinate alla reggia di Sparta

Affinché maggior dolore intossicasse il cuore dei vinti, Agamennone aveva decretato che fosse strappato ogni legame amorevole tra i troiani maschi da una parte, destinati alle isole dei Lotofagi, e le troiane destinate alla reggia di Sparta per lavare, stirare e infiocchettare il corredo della regina Elena in vista delle sue nuove nozze con Menelao. Polibio, il fidanzato di Cassandra, doveva invece restare a Troia, come supplente di matematica presso l’istituto “Pitagora” perché i professori di ruolo erano fuggiti con le navi di Enea dirette in Italia. Le donne, incolonnate come pecore, erano state avviate lungo la strada per Sparta, dentro un silenzio minaccioso su cui si era levato lo straziato grido di Cassandra: “Scrivimi fermo posta!” al quale era seguito il pianto di Polibio: “Scrivimi presso l’istituto Pitagora, piano terra, aula di matematica!” Poi Cassandra aveva chiuso gli occhi e aveva dato la mano a una compagna che la guidasse perché lei non voleva più vedere niente se non poteva vedere Polibio. Polibio aveva chinato il capo ed era tornato all’istituto “Pitagora” dove aveva lasciato a mezzo una lezione sui logaritmi. Povero istituto “Pitagora”: un mucchio di macerie annerite dal fuoco degli incendi. Durante il saccheggio i greci erano stati feroci e irriverenti, avevano buttato cattedre e banchi dalle finestre, avevano danzato con gli scheletri del laboratorio di anatomia, Ulisse aveva lordato i muri con la propria cacca. Polibio non aveva più una sedia, un attaccapanni, un porta ombrelli, era costretto a insegnare stando in piedi davanti ad un muro affumicato su cui scrivere col carbone. Scriveva con mano tremante file e file di logaritmi che sembravano processioni di formiche. Gli studenti avevano compassione di lui ed erano loro stessi a suggerirgli i risultati delle equazioni quando lui appoggiava la testa contro il muro e tirava su col naso per fermare il pianto incombente. Nottetempo, sfidando il coprifuoco, Polibio scriveva sui muri appartati della città. Scriveva: “Cassandra ti amo” poi si rincantucciava nel buio aspettando il passaggio di qualche ambulante che si fermasse a leggere la scritta e la ficcasse bene in testa finché, capitando a Sparta, potesse bisbigliarla al primo che incontrava, e questo la ripetesse al secondo e così via di bocca in bocca fino ad arrivare nelle lavanderie della reggia dove Cassandra faceva il bucato per la famiglia reale. Purtroppo, una notte, Polibio era incappato nella ronda achea: “Altolà! Chi sei?” Lui si era schermito: “Sono il supplente di matematica della scuola “Pitagora” “Ah sì!!!” aveva inquisito la guardia “Sissignore!” “Allora dimmi quale è la radice quadrata di trecentodiciassette.” Polibio era impallidito. Aveva cercato invano, nelle tasche, il libretto delle radici quadrate “Dunque?” aveva digrignato l’acheo. Polibio aveva chinato il capo “Perdono” aveva implorato “La radice quadrata di trecentodiciassette non c’è.” “Non c’è?” “No, non c’è.” ”Ah,sì, non c’è?” “No signore, non c’è.” La guardia gli aveva dato un calcio “Lo chiederò a Talete! Poi faremo i conti!” e gli aveva tirato un altro calcio. Pur ammaccato, Polibio era tornato a scuola, si era addossato al muro e aveva riempito la parete di logaritmi, senza mai voltare la testa verso gli alunni che lo guardavano impietositi. Polibio non levava lo sguardo dalla parete, pareva guardare oltre, lontano, lontano mentre gli si riempivano gli occhi di lacrime perché, sul muro, gli era apparsa la città di Sparta, in festa per le conclamate nuove nozze di Elena e Menelao. La città era un tripudio di fontane zampillanti, di alberi gremiti di pettirossi, di musei di storia naturale con dinosauri imbalsamati tirati a lucido. Il palazzo di Menelao profumava di mirto e nella sua agorà Cassandra stendeva il bucato della regina Elena: che sventolio di tuniche, pepli, sottovesti, braghe, mouchoirs, nastri di bisso, lenzuola ricamate dove gli sposi si sarebbero abbracciati, perduti, riabbracciati, perduti di nuovo, di nuovo ritrovati tra il rullare dei tamburi della guardia reale. Polibio si era levato sulla punta dei piedi: “Cassandra !!!” aveva chiamato. Miracolo! Cassandra l’aveva udito, era arrossita, aveva pianto, aveva battuto le mani con tale impeto che lo schiocco era sbottato in tuono. Il rimbombo aveva percorso l’Ellade, arrampicandosi sui monti Alicarnassi, sollevando le acque dell’Egeo cosicchè il fondo del mare era diventato terra secca dove ancora erano impresse le orme dei Giganti che al tempo dei tempi erano transitati di là per andare a Smirne. Il fragore si era infine capovolto sulla città di Troia, su l’istituto “Pitagora”, sugli studenti impauriti che si erano coperti la testa con le braccia, su Polibio che aveva gridato: “Quando torni?” “Presto, presto. Ci sarà una licenza per le nozze reali, dal venerdì alla domenica.” aveva gridato Cassandra.

Spentosi il tuono Polibio si era inchinato agli studenti e gli studenti l’avevano riverito, poi si era avviato a casa con spedito passo bisbigliando: “Da venerdì a domenica…” Intanto era sorta la luna e il mondo si era schiarito come se fosse già l’alba di venerdì.” A casa Polibio aveva acceso la stufa e preparato la cena. Intanto che il riso cuoceva ripeteva a sé stesso: “Venerdì, sì, sì da venerdì a domenica.” Poi aveva cenato. Un piatto davanti a sé, un altro piatto di fronte come se vi fosse Cassandra. Lui prendeva un cucchiaio di riso dal suo piatto e con quello s’imboccava, poi prendeva un altro cucchiaio dal piatto di Cassandra e fingeva di servire la fidanzata: “Am, salam…” diceva Polibio immaginando che Cassandra gli rispondesse: ”Am, salam…” Infine era andato a letto e voltosi verso la finestra aveva rimirato la luna. Il suo sguardo perlustrava i monti, i mari, i deserti lunari dove erano impresse le orme dei Giganti che avevano smarrito la strada per Smirne ed erano finiti lassù. Infine Polibio si era addormentato e nel sogno gli pareva che la luna gli dicesse: “Venerdì, venerdì… e raditi la barba, e tagliati le unghie, e cambiati la biancheria, e metti la camicia nuova, quella di lana a righe bianche e blu, e spazzola le scarpe, e pensa una poesia da dire alla tua fidanzata appena apparirà sulla porta. “Ho in mente una poesia sugli alberi…” diceva Polibio. “Bene…” diceva la luna “Ma una poesia sul mare è meglio.” “Sul mare...?” “Sì, sul mare che bagna l’Africa…” “L’Africa? Dov’è L’Africa?” Polibio si era svegliato “Dov’è l’Africa?” La luna era là, nel riquadro della finestra con la bocca sigillata, come se non le importasse nulla delle vicende umane. Polibio avrebbe voluto parlarle, sapere quando sarebbe stato il venerdì delle nozze, sapere dov’è l’Africa, ma la notte finiva e la luna tramontava. Polibio avrebbe voluto fermare la luna, inginocchiarsi ai suoi piedi, abbracciarla: “Venerdì, venerdì…quando?” Purtroppo l’alba era ormai sopravvenuta, il mondo rischiarava, la luna diventava madreperlacea, diafana, trasparente finché era disparita nella gloria del sole sorgente.

 

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Gli autori di Vorrei
Adamo Calabrese
Adamo Calabrese

Adamo Calabrese è scrittore, autore di teatro e illustratore. Ha pubblicato con Einaudi il romanzo "Il libro del re", con Albatros i libri di racconti "L'anniversario della neve", "La cenere dei fulmini", "Il passaggio dell'inverno", con Joker "Paese remoto". Ha illustrato i propri libri ed edizioni di Dante, Gibran e Pascutto. Scrive e disegna per il quotidiano "Il cittadinio" di Lodi, per le riviste "Vorrei" di Monza e "Odissea" di Milano. I suoi ultimi lavori teatrali hanno messo in scena opere di Brecht, Joyce, San Francesco e Iacopone. Nel 2012 RAITREha trasmesso un suo testo. Nel 2014 è stato finalista del premio internazionale di grafica satirica "Novello". Insegna letteratura presso le Università della terza età di Sesto san Giovanni e Milano (Università Cardinale Colombo)

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