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Fahrenheit 11/9 racconta "come diavolo è successo" a Trump di diventare presidente, mette l'establishment democratico di fronte alle sue colpe ed esorta ad un'immediata azione per evitare il bis nel 2020. La visione in un cinema di Manhattan una settimana dopo le primarie vinte da Cuomo aiuta a riflettere sulle contraddizioni dell'elettorato democratico.

Fahrenheit 11/9, l’ultimo lavoro di Michael Moore, presentato sabato alla Festa del Cinema di Roma e nelle sale italiane da lunedì 22 ottobre,  ha debuttato il 21 settembre scorso in 1700 sale cinematografiche americane, stabilendo il record nazionale per un documentario. 

 Averlo visto il giorno della sua uscita in centro Manhattan, tra un pubblico "democratico" prevalentemente della upper-middle class è stata un’esperienza interessante, sebbene prevedibile, soprattutto dopo aver trascorso nelle più disparate e diseguali zone di New York la settimana precedente e quella successiva alle primarie vinte da Andrew Cuomo il 13 settembre.

Le reazioni della gente durante la proiezione e le opinioni di alcuni spettatori dopo la visione hanno contribuito a confermare una panoramica sull’attuale elettorato democratico americano, maturata negli ultimi tre anni confrontando le informazioni mainstream e quelle indipendenti, e partecipando, in alcuni viaggi, ad incontri politici e situazioni di vita sociale. Circostanze trascorse osservando, ascoltando, raccogliendo testimonianze dirette e conversando con molte persone di differenti estrazioni sociali, razziali e culturali.

Nella sala, abbastanza affollata ma non pienissima di una proiezione delle 7 di sera con un pubblico prevalentemente dai 40 in su, a parte le manifestazioni di divertimento che come sempre Moore suscita grazie alla sua ironia e comicità, numerosi sono stati i commenti di corale indignazione in alcuni passaggi del film. Per contrasto essi hanno fatto risaltare il quasi silenzio, forse imbarazzato o incredulo, con cui sono stati accolti altri passaggi, sebbene meritassero reazioni di indignazione non meno sonore. 

Ma andiamo con ordine. 

Il titolo del film deriva dalla curiosa coincidenza offerta al regista di Fahrenheit 9/11, Palma d'oro a Cannes nel 2004,  di operare uno scambio di numeri che, confluendo nel palindromo 911119, rappresentano due tragiche date per gli Usa di inizio terzo millennio. 

La prima è la tragedia unanimemente condivisa dell’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre di 17 anni fa. La seconda, ovviamente molto meno condivisa, è la quella  di mercoledì 9 novembre 2016 quando, poco dopo la mezzanotte del martedì elettorale, Donald Trump veniva dichiarato 45° presidente degli Stati Uniti d’America. 

Se il primo Fahrenheit raccontava della presidenza di George W. Bush, degli affari mediorientali della sua famiglia e delle guerre per difenderli, il secondo non è affatto una cronistoria dei fatti e misfatti dell’era trumpiana, nonostante probabilmente molta parte del pubblico questo si aspettasse. 

All’insegna delle domande chiave “Come diavolo è potuto accadere tutto questo e che cosa diavolo dobbiamo fare adesso?”, il documentario appare più un sequel di Michael Moore in Trumpland, uscito nel 2016 poco prima delle presidenziali, sebbene tra i destinatari dei due film ci siano anche elettori democratici molto diversi tra di loro. 

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Un fotogranmma dal trailer di Fahrenheit 11/9 

Come rilevato a suo tempo nell’articolo Michael Moore in Trumpland come Charlie Chaplin in Tomania, in quel film il regista ribadiva le motivazioni, che aveva già ben articolato fin dall’inizio della corsa di Trump, secondo cui la vittoria dell’attuale presidente sarebbe stata inevitabile, a meno che la nazione non si fosse mobilitata per impedirla.
Poiché in quel momento l’unico modo rimasto per impedire la “tragedia” trumpiana era votare per Hillary, Moore  si rivolgeva non tanto ai "tradizionali" elettori democratici, già hillariani per conto proprio, quanto a quell’enorme platea di millennials, di persone bianche e di colore appartenenti alle classi sociali più deboli, di operai della cosiddetta rust belt (cintura della ruggine) dell'industria automobilistica, a tutti coloro insomma che costituivano e ancora costituiscono il partito più grosso d’America, quello degli astensionisti.

Un partito che però nel 2016 si era lasciato in parte coinvolgere, in misura mai verificatasi precedentemente, dall’entusiasmo per Bernie Sanders e che per votare per lui  si era iscritto alle primarie democratiche. 
Sicuro che la nomina di Hillary alle presidenziali  avrebbe riportato quegli elettori nell’astensionismo o, ancor peggio, che quelli di loro residenti negli swinging states della rust belt  avrebbero deciso le sorti della nazione votando per Trump, come in effetti è stato, il Moore versione Cassandra utilizzava tutte le sue risorse per convincere astensionisti cronici ed ex-astensionisti sandersiani ad andare alle urne e, seppur tappandosi il naso, a votare Clinton.

 Abilissimo non solo nell’usare ogni tipo di espediente cinematografico e narrativo, compreso il suo aspetto fisico , ma anche nel servirsi delle informazioni  esponendole o tacendole a seconda dell’obiettivo che di volta in volta vuole perseguire, Moore pur dichirandosi sandersiano e di non avere mai votato per Hillary, faceva vedere le cose buone che lei aveva fatto in gioventù e prospettava come, con l’aiuto e la pressione costante di Bernie alle spalle, persino Hillary sarebbe potuta essere una brava presidente.

Fallito quel tentativo in extremis di evitare la tragedia, Moore ci riprova ora, in una situazione che è però molto più grave di allora poiché, dopo quasi due anni di presidenza Trump, sul piatto c’è quel poco che resta della democrazia americana. Bistrattata da qualche decennio non solo dal partito repubblicano, ma anche da quello democratico, essa è ora più che mai in pericolo con  «quest'uomo che mente e dice la verità nello stesso tempo, che dice una cosa e la ribalta subito dopo»,  confondendo così le persone  «sui piani che ha in mente, ma che riesce sempre ad ottenere quello che vuole, come dimostra anche la recente nomina di Kavanaugh alla Corte Suprema.»

L’azione che Moore sollecita è dunque più trasversale,  diretta anche a quegli elettori democratici  “tradizionali” che due anni fa non c'era bisogno di  convincere, ma che oggi vanno resi consapevoli  che il loro essere “genericamente" democratici non basta, che non li assolve e che soprattutto non li protegge dal quasi sicuro bis di Donald nel 2020. 

 «Trump non ha alcuna intenzione di lasciare la Casa Bianca» e gli «white angry men», che lui rappresenta (già oggetto di satirici ed esilaranti ma veritiere descrizioni nel film del 2016), ossia quegli uomini bianchi arrabbiatissimi perché «sanno  di avere i giorni contati”» in una società sempre più multietnica, femminile e giovane, «sono disposti a fare qualunque cosa: sopprimere il voto, modificare i distretti elettorali a loro favore, blindare la Corte Suprema», cosa ormai attuata.

«La democrazia non è dotata di un meccanismo autocorrettivo. La costituzione è solo un pezzo di carta. E’ l’essere umano a decidere in ogni epoca verso quale parte della costituzione propendere. E se si arriva al suo limite, facendo in modo che la gente rinunci a molti dei suoi diritti, riducendo a pezzi la democrazia, rendendo difficilissimo andare a votare per persone che ne hanno il diritto e che dovrebbero farlo, cadere nel precipizio è facilissimo.»
(Michael Moore alla giornalista  Amy Goodman su "Democracy Now")

 

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Un fotogranmma dal trailer di Fahrenheit 11/9

Ecco che allora di sconti non se ne possono fare, soprattutto all’establishment democratico, il quale ha gioco facile nell’imputare al partito repubblicano tutto ciò che non va, seguito ciecamente da quella gran parte dell’elettorato democratico tradizionale che, benché in molti casi costituito da persone istruite e con buone professioni, poco sa e ancor meno si cura di molte delle realtà del suo partito.

Ad esempio della guerra civile attualmente in atto tra i corporate dems e l’ondata di progressisti, che si sono saputi organizzare tanto da emergere in modo inaspettato durante le recenti primarie; della collusione di molti politici democratici con il big money e del conseguente effetto antidemocratico di questa collusione;  dei veri programmi dei progressisti alla Bernie Sanders, spesso liquidato come una specie di bolscevico, "un socialista radicale che vuole la rivoluzione, mentre la gente in America la rivoluzione non la vuole", oppure  come "un idealista con proposte irrealizzabili perché i soldi per realizzarle sono impossibili da trovare". Un elettorato che, come le due frasi virgolettate scelte tra le tantissime simili catturate in situazioni "mondane", si esprime come i media mainstream che si professano liberal ma che, al pari dell'establishment di cui sono portavoce, di liberal hanno ben poco.

Michael Moore, convinto che Trump potrà essere sconfitto solo da un partito democratico profondamente rinnovato, in cui i progressives riescano ad avere sufficiente voce in capitolo per cominciare a ripulirlo dalla corruzione imperante e dalle bugie,  punta quindi ancora sull'ampliamento del "nuovo" elettorato progressista, ma contemporaneamente tenta di convincere quei democratici tradizionali a cambiare strada. Ciò che da osservatore esterno sembra quasi incomprensibile è come due elettorati tanto differenti e soprattutto due ideologie di base arrivate a posizioni tanto differenti possano continuare a stare insieme nello stesso partito. 

Comunque, data l’emergenza della situazione, Moore non può avere riguardi per nessuno, non solo quindi per per i tre campioni della raccolta big money come Steny Hoyer, Nancy Pelosi o Chuck Schumer, di cui critica in particolare alcune posizioni riguardo a Trump, ma nemmeno per Hillary e Obama, le due sacre icone dell'elettorato tradizionale. Da esperto volpone qual è però, sa che il pubblico va preparato gradualmente, quasi ingannato, prima di passare all’artiglieria pesante.

Niente di meglio allora di una gustosissima apertura sulla nottata elettorale, dolorosa per gli hillariani, ma montata in maniera così ironica da suscitare divertimento persino in loro. Soprattutto nel momento culminante in cui la banda Trump al gran completo sale sul palco per la proclamazione, mentre la voce off di Michael commenta «mai si era visto un gruppo così triste di avere vinto».

 Altrettanto gustosa è la genesi della candidatura di Trump.

«Tutta colpa di Gwen Stefani», la stella del programma The Voice che dalla NBC, su cui Donald conduce The Apprentice, percepisce un compenso più alto del suo. L’affronto è insostenibile e nelle trattative per il rinnovo del contratto, a Trump scappa di dire che il suo seguito è talmente alto che se decidesse di candidarsi a presidente vincerebbe. L’idea buttata lì per sfida verso i dirigenti del network piace alle sue orecchie e così decide di affittare due teatri per metterla alla prova. Nel darne l’annuncio alla Trump Tower di New York però si lascia andare a commenti razzisti sui messicani e così i dirigenti della rete, anziché dargli l’aumento di stipendio, lo licenziano in tronco. A quel punto con i due stadi già pagati tanto vale continuare il gioco ancora per un po’. Ma Trump quegli stadi li riempie di pubblico osannante, la cosa lo manda in visibilio e il gioco continua.

Tutte le reti nazionali si buttano a pesce sulla notizia e Trump si ritrova per mesi pubblicizzato, senza spendere neanche un soldo, sulle reti  legate all’establishment democratico che con lui fanno il pieno di ascolti, e quindi il pieno di pubblicità pagata fior di quattrini.

Il resto è storia. Così come è storia l’ilarità suscitata in ambito politico, giornalistico, e tra i personaggi dello showbiz, che Moore ci mostra sbellicarsi dalle risate all’idea di Trump candidato alla presidenza. 

Anche il pubblico in sala ride e commenta, convinto che questo sarà il tono generale del film. O per lo meno convinto che anche gli inevitabili momenti drammatici saranno diretti contro Trump e contro i repubblicani. Invece, a parte qualche altro pungente riferimento, Trump scompare fin quasi alla fine del film e nell’apparente caoticità  dei numerosi argomenti, che sembrano introdotti quasi saltando di palo in frasca, c’è una rigorosità che compone un disegno complessivo estremamente preciso. 

Il finora “genericamente” democratico Moore lascia il posto a quello progressista, a quello chomskiano e sandersiano, a quello convinto che siano le battaglie dal basso a cambiare il corso delle cose. 

E così ci porta nello sciopero degli insegnanti del West Virginia che, contrastato persino dai sindacati, parte da una sola scuola di una delle 55 contee dello stato, arrivando un poco alla volta a coinvolgerle tutte, le scuole e le contee, con una strabordante folla urlante “fiftyfive united, fiftyfive united".

 

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20182010 Fahrenheit 11 9 sciopero insegnanti west virginia

Due fotogrammi tratti dalle delle scene di Fahrenheit 11/9  trasmesse a Democracy Now durante l'intervista di Amy Goodman a Michael Moore.


In piazza insieme agli insegnanti ci sono gli autisti dei pullman scolastici, i bidelli, gli addetti alla mensa e quando alla fine viene concesso ai docenti ciò per cui lottavano, loro non rientrano a scuola finché non sono soddisfatte anche le richieste delle altre categorie. Il pubblico si lancia in commenti solidali, senza forse rendersi conto che per quei lavoratori organizzatisi da soli si sarebbe dovuto muovere il loro partito. 

E poi ci sono le storie esemplari di Alexandria Ocasio Cortez e di  Rashida Tlaib, che ha vinto  le primarie dem a Detroit e che non avendo sfidanti sarà la prima musulmana ad entrare in Congresso. Di entrambe Moore mostra episodi di cui abbiamo scritto anche qui, compreso quello di Rashida trascinata via a forza dalla polizia ed arrestata durante un comizio di Trump, mentre urla contro di luiuna serie di  frasi tra cui “leggi la costituzione” e "i nostri figli meritano di meglio".

Insomma Moore fa di tutto per bilanciare gli interventi prima di sferrare gli attacchi pesanti. 
Ma questi arrivano, inesorabili e, nel caso di Hillary, anche essi mostrano situazioni trattate su queste pagine fin dal 2016, come ad esempio i modi poco limpidi con cui  ha vinto le primarie. 

Dall’interno del Wells Fargo Stadium di Filadelfia, Moore ci mostra ciò che la folla sandersiana confluita in città da tutti gli stati vedeva in diretta sui megaschermi dell’attiguo F.D. Roosevelt Park: la consegna a Hillary degli stati in cui superdelegati avevano ribaltato il voto popolare. Quello che si vede in più rispetto a ciò che rimandavano i megaschermi del parco sono le scritte in sovrimpressione con i dati dei voti andati a Bernie e di quelli andati a lei.

 

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Due foto scattate al Roosevelt Park di Filadelfia durante la diretta con l'arena del Wells Fargo Center il 26 luglio 2016, giorno della nomina presidenziale di Hillary

E ancora il peggiore degli episodi legati alla figura di Donna Brazile, allora vicepresidente del Comitato Nazionale Democratico e analista  politico della CNN. Moore va a recuperare lo spezzone di un  confronto televisivo tra Bernie e Hillary gestito dalla CNN,  in cui una delle tante mamme  dei bambini  gravemente ammalati per colpa acqua al piombo di Flint fa una domanda a Hillary. Lei ascolta accorata ed altrettanto accoratamente, ma con risolutezza sulle decisioni da prendere, risponde a quella domanda apparentemente ascoltata per la prima volta, ma che le era stata invece preannunciata da Donna Brazile. Una faccenda poi costata cara alla signora Brazile, ma  anche a Hillary che gli elettori della cittadina del Michigan non hanno perdonato. 

I commenti sonori in sala sono diminuiti parecchio rispetto ad alcune delle scene precedenti, e questo è solo il prologo della parte dedicata a Flint, la città natale di Michael Moore, della quale tante volte si è occupato nel corso della triste vicenda dell'acqua avvelenata.
Siamo al corpo principale del film,
 alle immagini più dolorose, serie e sconvolgenti,  alle storie che (insieme alle scene relative alla sparatoria nella scuola di Parkland, con le  lunghe inquadrature sul meraviglioso viso muto di Emma Gonzales, che più eloquente di così non potrebbe essere) hanno il maggior impatto sul pubblico .

 

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Emma Gonzales in un fotogranmma dal trailer di Fahrenheit 11/9 

Moore la vuole raccontare per bene la storia della sua Flint, dove ha anche voluto presentare Fahrenheit 11/9 in anteprima nazionale.  Quella Flint che, come ha dichiarato alla presentazione del film al Toronto International Film Festival in settembre, se osservata avrebbe potuto rivelare molte cose  sul destino futuro della nazione:

«I sindacati hanno avuto il loro vero avvio a Flint. E’ stata questa città a creare la classe media. La classe media non esisteva prima di Flint, Michigan. E’ cominciata qui. Questa città ci ha dato il primo sindaco nero del paese. La città è stata la prima negli Stati Uniti d’America  ad emanare un ordine razzialmente non discriminatorio per l’affitto delle case. Si sarebbe potuto prevedere qualsiasi cosa su Trump se si fosse prestata attenzione a Flint.» 

I commenti di sdegno tornano ad essere  sonori e numerosi mentre vediamo  il governatore repubblicano Rick Snyder che, per speculazioni finanziarie,  nel 2014 fa pompare l’acqua per la città dal fiume Flint invece che dal lago Huron, come era sempre stato. 

La gente comincia ad ammalarsi e i più colpiti sono i bambini, il cui tasso di piombo nel sangue sale vertiginosamente. Dopo poche settimane dall’introduzione della nuova pipeline la General Motors si fa sentire, perché le parti delle auto sottoposte a trattamento con l’acqua hanno dei seri problemi. Immediatamente alla General Motors viene ristabilita la connessione con l’acqua buona, mentre la popolazione continua a bere, lavarsi e cucinare con quella al piombo. Chi se lo può permettere se ne va dalla città, chi invece può contare solo sui soldi provenienti dalla vendita della propria casa non può trasferirsi, perché i prezzi delle abitazioni sono precipitati. I dati sul tasso di piombo nel sangue dei bambini vengono falsificati e i genitori si tranquillizzano temporaneamente, ma i bambini non smettono di ammalarsi né guariscono. Li vediamo quei bambini, sofferenti in ospedale, e sentiamo le testimonianze di genitori, dottori, infermieri, insegnanti e di una impiegata che preferisce licenziarsi e affrontare la disoccupazione  pur di non dover più falsificare i dati del sangue. Sono scene strazianti e lo sdegno verso i comportamenti criminali di quel governatore repubblicano, incredibilmente ancora in carica,  è sempre più sonoro.

 

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Un fotogranmma di Fahrenheit 11/9. Michael Moore davanti alla casa del governatore delMichigan Rick Snyder 

Si riesce a sorridere solo nella scena, già ampiamente circolata due  anni fa, di Michael Moore che va davanti alla casa di Snyder  con un idrante e getta un potentissimo getto continuo di acqua avvelenata sulla sua villa, intimandogli di uscire perché sotto arresto da parte di un cittadino.  
Poi di nuovo lo sdegno. 
Finché ad un certo punto il pubblico ammutolisce.  Lo schermo rimanda l’immagine di Obama che beve l’acqua di Flint, dichiara che tutto va bene e firma un assegno di 10 milioni di dollari all’amministrazione perché continui sulla strada dei provvedimenti che, mentendo, ha assicurato di aver preso.

Quando Barack va a Flint, sono passati due anni dall'inizio della crisi. Perché il presidente non si è mosso prima? E perché non è intervenuto con un ordine esecutivo, passando la questione  agli organi federali? Perché quell'assegno a dei criminali? 

Qualche commento qua e là, ma soprattutto il silenzio, attestano lo sconcerto e forse soprattutto l’ignoranza riguardo a quella vicenda. Una vicenda, quella di Flint, di cui Moore mostra ulteriori terribili sviluppi che coinvolgono tanto la cittadina quanto Obama, ma che non racconteremo qui, così come non racconteremo i tanti altri episodi per cui questo film merita davvero di essere visto.  

Osservando le persone in sala alla fine del film è facile individuare quelli che stanno totalmente dalla parte di Moore, insomma quelli progressisti che sono andati al cinema con la consapevolezza delle sue posizioni e che sono generalmente quelli più giovani. Non sono quelli che decido di fermare per chiedere qualche opinione. Mi interessano maggiormente, forse con qualche pregiudizio, quelle che dall'aspetto appaiono più "genericamente" democratiche.  Uscendo dalla sala capto uno scambio di opinioni su Obama: "Non era il caso condannare Obama in quel modo per un'unica colpa che ha commesso." "Però quello che ha fatto è grave. Per Flint non ha scusanti."  Il turbamento comunque sicuramente c'è e alcune reazioni lo dimostrano. C'è chi non è disposto nemmeno ad ascoltarmi, c'è chi dice deve riflettere. Una signora over 55/60 di un gruppo di sei o sette coetanee dice che "forse è davvero ora di guardare più a sinistra" e che in futuro lo farà ed anche un paio delle sue amiche sembrano essere d'accordo, ma non tutte intervengono apertamente. Sono comunque state elettrici di Hillary nel 2016 e  di  Cuomo la settimana precedente. Una dice che  se avesse visto questo film prima forse avrebbe fatto un pensiero più serio su Cynthia Nixon: "Ho scelto Cuomo perché mi dà più sicurezza in caso di situazioni di emergenza. Con la sua esperienza e i suoi contatti sapebbe intervenire immediatamente. Cynthia di esperienza non ne ha."  Sembra di sentir parlare la CNN. Nessuna di loro comunque ha visto l'unico faccia a faccia  che Cuomo ha concesso  a Cynthia su una rete cittadina, nonostante le ripetute richieste dell'attrice, in cui lei lo mette alle corde sulle sue bugie. Ad un altro gruppetto misto chiedo di Hillary. Le posizioni sono di assoluta difesa: "Hillary  era la persona più competente e titolata che si sia mai presentata per la carica di presidente. Non capisco cosa si potesse volere di più."  "Non è colpa sua se esiste il sistema dei superdelegati o se una giornalista si è comportata scorrettamente." Chiedo se sanno che alla fine di agosto il Comitato Nazionale Democratico si è espresso per abolire i superdelegati, almeno nel primo giro elettorale, dopo una lunga battaglia di Sanders. Non lo sanno. Quanto ad alcune domande su Alexandria Ocasio Cortez poste, come molte altre, anche  in altri contesti un po' più mondani sottoforma di apparente semplice conversazione, il campione del cinema sembra  più informato, tuttavia l'impressione  generale è che la conoscano per il gran parlare che se ne è fatto dappertutto più per cronaca che per politica. 

Insomma a livello generale, per quello che può valere questa limitatissima campionatura, ciò che sembra emergere è che queste persone non hanno proprio nulla a che fare con quelle incontrarte ai rally di Cynthia Nixon o di Alexandria Ocasio Cortez a Brooklyn, Bronx, Queens ed anche in centro Manhattan. 

Ma New York è così. Una specie di "bolla", per citare l'espressione usata da Michael Moore venerdì sera a Propaganda Live, "the bubble of New York".

Se da una parte ci sono distretti come il 14° (Bronx e Queens) dove Alexandria Ocasio Cortez è riuscita a battere 70 a 30 il dinosauro Joe Crowley, grazie a quell’attivismo che ha coinvolto giovani, giovanissimi, ex-astensionisti e tante donne per cambiare  le condizioni degli abitanti di zone spesso lasciate a se stesse, dall’altra parte c’è la New York benestante, "genericamente" democratica dove Andrew Cuomo batte 70 a  30   Cynthia Nixon, senza neppure conoscerne il programma. 

Comunque se anche  Moore non riuscirà a smuovere più di tanto il tradizionale elettorato democratico, almeno della bolla di New York,  in quelli di loro che vedranno il film qualche perplessità e qualche futura riflessione riuscirà ad instillarla.  Ben diversi saranno gli effetti su altre realtà soprattutto se, come Moore invita a  fare, il film verrà usato come un'arma virale da diffondere per contribuire attivamente a quell’esplosione di voti giovanili e progressisti che Moore si auspica arrivino in queste elezioni di medio termine. Perché se ciò non avverrà, quello che potrà accadere al popolo americano, fondamentalmente amante della democrazia anche se astensionista, è simile a ciò che è successo ai tanti tedeschi ugualmente amanti della democrazia ai tempi della repubblica di Weimar:  

«Hitler ha fatto un plebiscito chiedendo alla gente di esprimersi con un semplice sì o no. “Vi sta bene che i nazisti prendano il potere e che io diventi sia presidente sia cancelliere?” Io la faccio vedere quell’elezione nel film. I tedeschi hanno votato sì e l’editoriale in prima pagina nel Jewish Weekly di Francoforte esortava gli ebrei a stare tranquilli, perché "non sarà così terribile come molti di voi pensano. Suvvia, siamo tedeschi e questa è una democrazia.  Non saremo raggruppati e rinchiusi nei ghetti perché abbiamo una costituzione”.»

Ma, come si citava prima, «la democrazia non è dotata di un meccanismo autocorrettivo. E’ la costituzione è solo un pezzo di carta…»

 

 

 

Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.