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Poco più di un anno fa ho cominciato a parlare della diffusione degli investimenti in imprese ESG (acronimo per Environment, Social, Governance), cioè in imprese che, oltre a perseguire il profitto, ritengono necessario e conveniente operare per migliorare la convivenza dell’impresa al suo interno e con l’esterno, con il contesto sociale e l’ambiente naturale.

Osservavo che la dimensione crescente degli investimenti in imprese ESG segna un cambiamento sostanziale nell’economia del pianeta. È stato calcolato infatti che essi hanno toccato l’incredibile percentuale del 35% degl’investimenti globali dei fondi di gestione di patrimoni, fondi pensione e sovrani.

 

Si potrebbe addirittura immaginare che tra qualche anno l’oggi esclusivo indicatore dello sviluppo, il PIL (Prodotto Interno Lordo) venga affiancato da un indicatore dell’evoluzione del sistema economico verso una migliore convivenza del genere umano con l’ambiente e verso una maggiore equità sociale. Oppure sostituito da un “pannello di controllo”, come proposto dal premio Nobel Joseph E. Stiglitz e altri studiosi (J.E. Stoglitz, J. P. Fitoussi, M. Durand, "Misurare ciò che conta. Al di là del PIL”, Giulio Einaudi ed., 2021). Un cruscotto di indicatori sul livello di benessere e di convivenza ambientale e sociale, e quindi non unicamente economico. Potremmo ad esempio rilevare che, in presenza di una scarsa crescita o addirittura di una riduzione quantitativa del PIL, gli indicatori di benessere, di equità e di miglioramento ambientale recano andamenti positivi. L’”Utopia per Realisti” proposta da Rutger Bregman, l’“Economia della ciambella” prospettata da Kate Raworth, il post-capitalismo auspicato da Tim Jackson, in definitiva una convivenza pacifica universale potrebbe diventare un obiettivo vincente.

Come ho rilevato successivamente, questa evoluzione apparentemente inarrestabile ha subito una battuta d’arresto in seguito alla crisi delle fonti energetiche e alla guerra in Ucraina. Gli eventi inattesi hanno causato un’attrattività straordinaria di impieghi in settori tutt’altro che ESG, come quelli delle fonti fossili e degli armamenti, che hanno spinto gl’investitori ad invertire la tendenza.

Molti operatori economici ritengono tuttavia che questa battuta d’arresto sia temporanea e che la tendenza verso un’economia ESG, culturale e sistemica, riprenderà il sopravvento.

Ma l’ostacolo all’affermarsi di questo circolo virtuoso non è solo congiunturale. Ci sono segnali che indicano che non tutti gradiscano un miglioramento della convivenza globale.

 

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BlackRock   

 

Alcuni Stati USA (Texas, ma anche South Carolina, Louisiana, Arkansas), governati dal Partito Repubblicano, hanno preso una posizione nettamente contraria al cambiamento.

In particolare, lo Stato del Texas ha diffuso una lista di dieci società e di 348 fondi di investimento che “boicottano le compagnie energetiche” e dunque non potranno più fare affari con le autorità statali. L’elenco fa seguito a una legge  che vieta alla maggior parte delle agenzie e delle amministrazioni locali texane di stipulare contratti con le società segnalate.
E non si tratta di imprese qualsiasi. Tra le società bandite spicca il Fondo Black Rock, il più grande gestore di patrimoni americano, e altre società finanziarie del calibro di UBS e del Credit Suisse. Società che hanno spostato una parte cospicua dei propri investimenti a favore di imprese ESG.
La cosa interessante è che questa contesa vede fronteggiarsi stati conservatori, che difendono corposi interessi privati, e potenti società finanziarie. Cioè uno scontro tra importanti protagonisti del sistema capitalistico, l’un contro l’altro armati. Gli uni interessati e schierati a favore di una più equa convivenza nelle e tra le imprese, tra il genere umano e l’ambiente naturale; interessate cioè a uno sviluppo qualitativo più che quantitativo, a una sicurezza e una convivenza civile basate sulla riduzione delle disuguaglianze, della povertà e del saccheggio delle limitate risorse ambientali. I secondi che prosperano in un sistema di liberismo incontrollato, con tutte le sue implicazioni in termini di speculazione finanziaria e immobiliare, di disuguaglianze, di devastazione del suolo, di evasione ed elusione fiscale, d’illegalità, di conflitti, di guerre.


La storia dimostra che questi ultimi poteri, più o meno legittimi od oscuri (pensiamo alla finanza fine a sé stessa, o ad associazioni come l’American Rifle Association, alle manovre dei servizi segreti, ai regimi guerrafondai), che coinvolgono una parte minoritaria del genere umano, spesso riescono a prevalere grazie alle ingenti risorse economiche di cui dispongono e alle competenze professionali e tecnologiche che sono in grado di mobilitare a proprio vantaggio, non solo improntando gli ordinamenti legislativi, ma soprattutto determinando l’orientamento dell’opinione pubblica grazie a un diffuso controllo dell’informazione.

 

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 Robert Kennedy

 

Purtroppo a ciò si aggiunge una ideologia inconfessata, ma ancora operante, che ha le sue radici molto lontano, addirittura nei tempi dell’Ancien Régime, prima delle rivoluzioni democratiche. È l’idea che identifica i ceti più ricchi con i produttori che generano ricchezza e lavoro. Idea che si traduce nella fede nel  “thrickle down”, nella convinzione (ampiamente smentita) che favorendo i ceti più ricchi si ottenga poi, “per gocciolamento”, l’arricchimento di tutta la popolazione. Si potrebbe facilmente dimostrare che è più probabile che i fannulloni improduttivi si ritrovino tra i ricchi piuttosto che tra i poveri impegnati a sopravvivere.

È questo retroterra (“O con le buone, o con le cattive”) che sta dietro molte vicende storiche, tra cui tanti assassini eccellenti, come quelli di John e Bob Kennedy, di Martin Luther King, o da noi di Aldo Moro.

A mio parere è praticamente impossibile che una forza politica che contasse solo o soprattutto sulla mobilitazione dei meno abbienti sia in grado di prevalere contro queste forze. E non a caso, quando è riuscita a farlo, lo ha fatto grazie al sostegno da parte di adeguate forze culturali ed economiche.

Il verificarsi di queste convergenze è spesso visto con sospetto dai sostenitori di una visione classista della società. Tuttora c’è chi ritiene, ad esempio, che un Mario Draghi non possa essere “di sinistra”, essendo stato un banchiere e quindi oggettivamente un “nemico di classe”. E se si segue il dibattito attualmente corso sul quotidiano la Repubblica sul futuro del PD e della sinistra italiana, si può rilevare come questa visione, ferma al secolo scorso, sia ancora viva e vegeta. Tuttora le convergenze tra appartenenti a diversi ceti sociali vengono rimosse o lasciate nell’indistinto, o deprecate come qualcosa di indecente, da nascondere o di cui vergognarsi.

È invece necessario superare la visione classista come un residuo della storia del novecento, con tutti gli eventi positivi e tragici che ha generato.

In particolare, la sinistra deve smettere di rivolgere le sue proposte “al suo popolo”, che evidentemente non esiste più. Deve fare propria la visione del Movimento Occupy Wall Street, il cui slogan era: “Siamo il 99%”. Deve rendere evidente alla grande maggioranza del genere umano che una politica finalizzata a ridurre le disuguaglianze e la povertà, e di adeguamento dello sviluppo ai limiti invalicabili delle risorse terrestri, è condizione di sicurezza e benessere per tutti.

Per questo le convergenze tra chi ha meno e una parte rilevante di chi più ha, non dovrebbero essere sottaciute o, peggio, ostacolate. Dovrebbero essere invece rese esplicite se non addirittura vantate. Per questo mi ha colpito favorevolmente un piccolo esempio recente: il pubblico riconoscimento che il movimento +Europa ha ricevuto il sostegno di Soros. Del resto, l’informazione secondo cui Forza Italia è sostanzialmente sostenuta della famiglia Berlusconi comprova la natura personale di questo partito.

 

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 Bono 

 

Naturalmente non si tratta di beatificare nessuno, né i Soros, o i Gates, o gli Zuckerberg o i Bezos, o i Buffett, o i Bono, che mentre promuovono grandi iniziative umanitarie agiscono da monopolisti o consentono ai loro tirapiedi finanziari di insediare le loro sedi in paesi dove si pagano meno tasse. Si tratta invece di rompere il fronte dei possibili avversari di una convivenza più giusta, più saggia, più sicura, più pacifica.

Mi viene spesso in mente l’intrigante passo del Vangelo di S. Luca (16, 1-13) dove Gesù Cristo suggerisce ai suoi seguaci di “farsi amici col Mammona dell’iniquità” perché  “i figli di questo mondo sono, nel loro genere, più scaltri dei figli della luce”. La vicenda sembra riprovevole: il fattore infedele invita i debitori dell’”uomo ricco” di cui è al servizio, a dimezzare i loro debiti, e incredibilmente ottiene il plauso del suo signore. Ma in effetti con il suo comportamento ha fatto un’opera di redistribuzione della ricchezza (di “ristrutturazione del debito” a favore dei meno abbienti, si direbbe oggi!), condivisa dal suo padrone. L’uno e l’altro hanno così dimostrato  di non servire due padroni, Il denaro (Mammona) e Dio. Ma solo quest’ultimo.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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