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In un famoso film del 2002 di Steven Spielberg, dal titolo “Minority Report”, si immagina che nel 2054 sia stato introdotto un programma digitale capace di prevenire gli assassini. La sperimentazione su Washington avrebbe annullato completamente gli omicidi.

Nel mio ultimo articolo, dedicato alla prevenzione delle disuguaglianze inique, ho parlato di nuovi orientamenti culturali o addirittura di “rivoluzioni” che caratterizzerebbero i tradizionali paradigmi della scienza economica. In particolare di un passaggio da una scienza specialistica orientata esclusivamente all’utile e allo sviluppo quantitativo, a una aperta agli altri saperi e orientata anche a rispondere alle esigenze ambientali e sociali.

Ma sono stato prudente nel sostenere che questi orientamenti, spesso solennemente enunciati, si siano tradotti in effettivi e adeguati comportamenti.

Ho citato Richard Cohen, con il suo “Impact Revolution”, nel quale propone di dare vita ad imprese capaci di integrare il rischio economico, connesso con la ricerca del profitto, con finalità umanitarie. Ma anche in questo caso non mi è sembrato che possano essere ottenuti risultati di grande rilievo globale, contrariamente a quanto sostiene o auspica Cohen.

Ma ora si stanno affermando nuove forme d’investimento, che fanno presagire un reale cambiamento dei comportamenti finanziari globali nel senso della maggiore equità e compatibilità ambientale.

Questo cambiamento, che ha come acronimo ESG, consiste nel fatto che le imprese non verranno più valutate  soltanto sulla base  dei risultati economico/finanziari, ma anche dei loro comportamenti ambientali, sociali e gestionali, tali da incidere sulla loro reputazione e quindi sulla valutazione di mercato. Come si vedrà, i quattro criteri (economico, ambientale, sociale, gestionale) sono strettamente interconnessi, anzi si compenetrano vicendevolmente.

Un problema sta nella adozione di indicatori che integrino quello, semplice ma inadeguato, del PIL, cioè del prodotto economico complessivo di tutte le attività di un paese.

In un comunicato del maggio 2019, la Banca d’Italia ha dichiarato di aver «modificato le modalità di gestione dei propri investimenti finanziari attribuendo un peso maggiore ai fattori che favoriscono una crescita sostenibile, attenta alla società e all'ambiente. Aumenteranno quindi le risorse destinate alle imprese con le migliori prassi ambientali, sociali e di governance».

Nello stesso documento la Banca comunica i criteri di valutazione adottati: per l’ambiente, le emissioni di CO2 e i consumi di energia e di acqua; per gli aspetti sociali, la percentuale di donne impiegate sul totale dei dipendenti e nei ruoli manageriali; per la governance, ancora la percentuale di donne nel Consiglio di Amministrazione, la separazione dei ruoli di presidente e di amministratore delegato, la percentuale di membri indipendenti nel CdA, l’adozione di misure anticorruzione.

E’ evidente la prudenza dei criteri adottati dalla Banca, che li rende insufficienti, anche se aperti a progressive integrazioni, nella misura in cui le metriche diventano possibili, cioè sufficientemente oggettive e condivise.

 

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Proviamo a elencare i problemi che dovrebbero essere considerati e misurati, oltre a quelli adottati dalla Banca d'Italia:

Per l’ambiente, dovrebbero essere presi in considerazione anche gli scarichi industriali e lo smaltimento e riciclo di scarti e rifiuti, nell’ottica dell’economia circolare.

Per gli aspetti sociali, si dovrebbe temer conto di tutti gli aspetti che riguardano gli stakeholders, coloro cioè che sono coinvolti nell’attività aziendale, e non solo gli shareholder, cioè i proprietari. Come i fornitori, che non dovrebbero essere sottoposti a pratiche di monopsonio, cioè di sfruttamento da parte dell’acquirente. E i clienti, nei confronti dei quali l’impresa dovrebbe essere il più possibile trasparente quanto a qualità di materiali e ingredienti, ai processi di produzione, e corretta nei messaggi pubblicitari. Tra gli stakeholder dovrebbe essere inclusa la comunità in cui l’azienda è inserita, ad esempio per quanto riguarda il traffico generato e l’inquinamento acustico.

Per la governance, la sufficiente presenza di personale femminile costituisce evidentemente un criterio dovuto ma minimo. Anche l’uguaglianza dei livelli retributivi tra i due sessi, che non presenta particolari problemi di misurazione, dovrebbe essere considerata. Un aspetto, ancora prevalentemente rimosso, dovrebbe essere messo in evidenza e affrontato: la differenza dei livelli retributivi tra i vertici aziendali e il dipendente di ultimo rango. E’ uno dei divari più scandalosamente aumentati negli ultimi trent’anni. Anche le ore dedicate alla cultura e alla formazione dei dipendenti sul totale dell’orario lavorativo dovrebbero essere considerate. E dovrebbe essere rilanciata la considerazione della durata degli orari di lavoro, perché studi recenti dimostrano che “lavorare meno, lavorare tutti”, a parità di retribuzioni, significa anche lavorare meglio sia dal punto di vista umano che da quello economico.

Dal percorso verso l’ESG le imprese possono trarre vantaggi o incontrare difficoltà. Gl’interventi finalizzati a ridurre l’impatto sull’ambiente possono comportare investimenti, ma anche vantaggi consistenti in termini di riduzione dei consumi energetici e idrici e degli sprechi. Ma gl’interventi finalizzati al miglioramento dei rapporti sociali e della governance, decisi a livello di una singola impresa, posso essere resi difficili dalla necessità di competere nel breve termine contro chi non adotta i criteri ESG.

Ma l’impegno ESG spinge le imprese a ragionare sul medio-lungo termine piuttosto che sul breve termine. E politiche apparentemente costose nei confronti di fornitori, dipendenti e clienti possono rivelarsi nel lungo termine importanti fattori di un vantaggio competitivo difficilmente attaccabile. E’ quanto sosteneva Frederick F. Reichheld, presidente della società di consulenza strategica Bain & Co., nel suo “Loyalty Effect” del lontano 1996, descrivendo un circuito virtuoso del successo delle imprese. Ma come mai dimentichiamo il visionario Adriano Olivetti, che proponeva una fusione tra cultura, ambiente, innovazione tecnologica e successo economico, realizzata concretamente nelle sue imprese, e il suo Movimento di Comunità, andati dispersi purtroppo con la sua morte?

La possibilità per la singola impresa o gruppo lungo di percorrere la via ESG è condizionata dal contesto socio/economico globale. Ma come ho già fatto rilevare nel precedente articolo, il clima a livello internazionale (Agenda 2030 dell’ONU, accordi a livello di OCSE e G20, consolidamento dell’Unione Europea), sembra favorevole, avendo intrapreso una sorta di inversione di marcia rispetto ai circa 40 anni passati.

 

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Questo clima in un certo senso rivoluzionario dovrebbe essere integrato da una politica finanziaria globale che penalizzi le pratiche speculative, generatrici di rendite improduttive e inique. I recenti accordi per una tassa minima globale sulle imprese multinazionali, finalizzati a far cessare la letale competizione al ribasso tra i diversi paesi e a colpire i paradisi fiscali, dovrebbe essere solo l’inizio. La proposta del premio Nobel James Tobin per una tassa sulle transazioni finanziarie, da considerare alla stregua del gioco d’azzardo, proposta nel 1972 e affossata, dovrebbe essere riesumata con le potenzialità consentite dalla rivoluzione digitale. Occorrerebbe anche difendere l’ambiente urbano dalla speculazione e dalla rendita edilizia, con un blocco drastico del consumo di suolo.

E’ il caso di ricordare che stiamo parlando delle sole misure dirette a prevenire disuguaglianze e povertà, e non delle strutture e servizi attinenti ai diritti fondamentali (sanità, scuola, casa, reddito minimo) e delle misure correttive delle disuguaglianze, affidate soprattutto all’intervento pubblico e a una fiscalità progressiva e redistribuiva. Per quanto si possa prevenire agendo sui comportamenti delle imprese e dei mercati, le pubbliche istituzioni non potranno rinunciare all’esercizio di funzioni e  interventi che sono loro propri.

Comunque, è sperabile che negli anni futuri il successo nella prevenzione delle disuguaglianze e della povertà diventi oggetto di un “majority report”!

 

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Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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