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Dopo un periodo di "lavori in  corso" Vorrei riprende le pubblicazioni. Tra i nuovi contributi, alcuni reportage dagli  Stati Uniti sulle primarie americane, con particolare attenzione alla campagna di Bernie Sanders. In questo articolo, oltre a una premessa riguardante i prossimi racconti sulle testimonianze raccolte in Iowa, New Hampshire, Vermont e New York, uno sguardo agli sconvolgimenti portati dal Supertuesday del 3 marzo e al tardivo ritiro di Elizabeth Warren la cui posizione continua ad essere enigmatica. 

Premessa
Burlington, Vermont, 5 marzo 2020

Questa premessa sarà in testa ad alcuni dei miei prossimi articoli sulle primarie americane. 

Come i lettori di Vorrei sanno, negli ultimi mesi la rivista ha attraversato una fase di transizione e di "lavori in corso", durante la quale la pubblicazione è stata temporaneamente sospesa. Parte di quel periodo ha coinciso con alcune mie tappe nelle primarie americane, precisamente in Iowa e New Hampshire, dove ho seguito da vicino le vicende dei  primi due stati al voto, e successivamente a New York e a Burlington, Vermont. 

Qualche lettore forse ricorda che il  mio primo resoconto americano su queste pagine, A Filadelfia nei giorni della National Convention del Partito Democratico,  risale all'estate del 2016. Le emozionanti esperienze vissute in quei giorni mi hanno convinta fin da allora che ci sarebbe stato un “Bernie 2020” di proporzioni destinato ad essere  ancora  combattuto dall'establishment  fino all’ultimo respiro. Nell'attesa della nuova campagna ho costantemente seguito  la Political Revolution e la guerra civile del Partito Democratico sia da casa sia  con qualche altro viaggio americano. Elezioni Usa: tutto cominciò a Filadelfia, scritto la primavera scorsa agli esordi della nuova campagna   fornire un'introduzione sintetica alle dinamiche attuali, così come gli articoli successivamente scritti per Jacobinitalia.it 

Per quanto riguarda quest'ultimo viaggio politico che racconterò un po’ per volta, ho potuto approfonditre moti temi,  partecipare a comizi di tutti i candidati, o per meglio dire degli ex-candidati, togliermi  la curiosità di vedere Trump in uno stadio superaffollato, intervistare tantissime persone comuni e note. Tra queste ultime, due su tutte, la meravigliosa  Nina Turner, co-chair della campagna elettorale di Bernie e sua potenziale vice presidente e John Nichols, punta di diamante del giornalismo americano.

Avendo finora pubblicato pochissimo tengo a precisare che seguire una campagna elettorale per conto proprio è un’impresa complicata e faticosa, per non dire addirittura  estenuante. Tuttavia le emozioni sono tali che, coronavirus e vicende della vita permettendo, ho intenzione di spendere fino all’ultimo centesimo messo  da parte per questo 2020. Un anno che, comunque vadanio a finire le elezioni,  imprimerà definitivamente nella Storia il nome di Bernie Sanders come l’eroe che ha osato sfidare l’impero.

 Fine della premessa.

 20200306 bernie 5Foto di Elisabetta Raimondi

 La nuova sfida Biden-Sanders e il ritiro di Warren 

Come ormai tutti sanno, il supertuesday del 3 marzo è stato un disastro per Bernie Sanders, soprattutto considerando le aspettative che le sue prime tre vittorie avevano lasciato prevedere. Questo non significa affatto che Bernie sia fuori gioco ma che, come a Monopoli,  bisogna ripartire dal via. Tutte le carte sono state rimescolate e Joe Biden, che già dopo la sconfitta dell’Iowa veniva dato per spacciato, è risorto miracolosamente.

Più che alla scontata vittoria del 29 febbraio nel South Carolina dove Joe aveva investito gran parte delle sue finanze e dove gode, come in altri stati del sud, del sostegno della maggior parte degli aforoamericani meno giovani, la resurrezione ha avuto del miracoloso nel supermartedì dove in palio c'erano 14 stati. Nonostante le previsioni ne dessero almeno otto a Bernie, Uncle Joe se ne è portati a casa dieci e Sanders solo quattro, sebbene tra di essi ci sia la tanto ambita California che assegna il maggior numero di delegati. 

 Bhaskar Sunkara su Bernie e Biden prima del supertuesday

La sconfitta ha creato un notevole sconforto, dato che anche tutti i commentatori dell’informazione indipendente vedevano in questo supermartedì l’occasione che avrebbe portato Bernie Sanders verso una ormai incontrastabile maggioranza relativa, la cosiddetta “plurality”, che è stata oggetto di molte discussioni nelle ultime settimane. 

Il 29 febbraio, qualche giorno prima di recarmi in Vermont esplicitamente per vivere  la serata dei risultati  del supertuesday nel palazzetto dello sport di Burlington, dove sapevo sarebbe intervenuto anche Sanders, ho incontrato a Brooklyn Bhaskar Sunkara, il fondatore di Jacobin Magazine che già avevo  intervistato a Milano per Vorrei nel 2018,  in occasione della presentazione della edizione italiana della popolare rivista americana. Allora Bhaskar mi aveva detto che, se fosse stata questione di vita o di morte, avrebbe scommesso sulla vittoria di Biden, per il vantaggio mediatico di cui avrebbe goduto  come candidato dell'establishment. Nell'intervista di Brooklyn, che sarà oggetto di altri articoli per le numerose ed interessanti opinioni espresse su molti temi,  la mia prima domanda è stata se lui fosse ancora di quella opinione:

«E’ quasi definitivo che Bernie otterrà la nomina presidenziale per il Partito Democratico. Avrà la maggioranza relativa dei voti anche se non quella assoluta. Ma avrà un mandato sufficiente da far valere. Credo che sia il candidato più competitivo contro Donald Trump. Ma Trump è il presidente in carica e per come funziona la politica americana questo è un grande vantaggio. Quanto a Biden avrà un gran successo domani in South Carolina, ma non credo che alla fine sarà lui a prevalere. Ha investito una gran parte delle sue risorse economiche in quello stato, ma gli mancano le infrastrutture che possano portare a risultati simili in altri stati. Nei sondaggi Bernie è di gran lunga favorito in California e Texas, due stati che assegnano molti delegati e penso che vincerà anche il Massacchussetts di Elizabeth Warren. Tra l’altro la presenza di Bloomberg negli stati del  supertuesday del 3 marzo sarà molto più dannosa per Biden che per Sanders. Ironicamente Bloomberg potrebbe alla fine giocare un ruolo positivo per Sanders, visto che anche se è stato scelto per fermare Sanders, sta facendo di tutto fuorché quello.»

Della stessa opinione di Sunkara erano tutti gli altri commentatori indipendenti e, sebbene lo negassero, dovevano esserlo anche i principali opinion maker dell'informazione mainstream dipendenti dai diktat dell'establishment democratico, considerando  l'ulteriore intensificazione della già intensa campagna anti-Bernie. 

Era imperativo categorico correre ai ripari, e farlo quanto prima per evitare di incappare nell’errore commesso dai repubblicani nelle primarie del 2016 quando, invece di costituire una coalizione forte contro Donald Trump, ognuno  se ne era andato per  conto suo, rendendo inevitabile quella nomina che forse strategiche mosse preventive  avrebbero potuto evitare. 

Le grandi manovre delle 72 ore prima del Supertuesday

Ed è così che nelle che nelle 72 ore precedenti il supermartedì la macchina dell’impero si è messo in moto e i colpi di scena si sono susseguiti uno dietro l’altro, a detta di molti  orchestrati da dietro le quinte da Obama, come alcune sicure telefonate testimonierebbero.

Sta di fatto che sabato la nuova fase dell’operazione “Stop Bernie”, dopo quella fallimentare tentata con Bloomberg, ha avuto inizio.

Il primo a colpire è stato Mayor Pete Buttigieg , il giovane ex sindaco rottamatore presentatosi come falso progressista grazie alla vaghezza dei suoi discordsi pieni di luoghi comuni, ma in effetti un neoliberista manovrato dall’establishment e dai miliardari che hanno finanziato la sua campagna. Pete Buttigieg ha annunciato il suo ritiro subito dopo la vittoria di Biden in South Carolina, sebbene fino al giorno prima non avesse dato alcun segno di voler interrompere la sua campagna. Anzi, in virtù di quella prima  apparente e millantata vittoria  in Iowa, che i media e il partito gli avevano abilmente attribuito nei primi tre giorni dopo il caucus, e di altri due buoni piazzamenti in New Hampshire e Nevada, Buttigieg si era montato la testa.  Sembrava infatti seriamente convinto di essere il cavallo da corsa vincente di cui i vertici del partito erano disperatamente alla ricerca, dopo i crolli delle altre ipotizzate stelle e stelline che lo avevano preceduto.

Ma tanto lui quanto Amy Klobuchar, altra candidata gradita all'establishment e persona molto più apprezzabile di Pete in quanto fedele ai suoi principi moderati fin dall'inizio della corsa, sono troppo deboli con i voti di colore e i loro buoni piazzamenti iniziali hanno avuto più che altro a che fare con la composizione demografica dei primi due stati al voto, sostanzialmente bianchi.

E così domenica anche Amy Klobuchar, diretta rivale di Pete in ogni dibattito presidenziale, ha abbandonato la corsa, dando il suo endorsement a Biden, persona che  per lei è la scelta ovvia e naturale, al di là di ogni eventuale accordo per una  importante posizione nella sua prossima amministrazione Biden. Il Minnesota, stato della Klobuchar, uno dei preventivati stati favorevoli a Sanders veniva così seriamente ipotecato e infatti il martedì dopo Biden ha vinto.

Intanto domenica, dopo quello di Klobuchar, sono arrivati gli endorsment di Mayor Pete e di un suo compare finto progressista  riesumanto dal dimenticatoio di quelle stelle e stelline iniziali poi rivelatesi dei flop. Si tratta di Beto O’Rourke che, da bravo progressista quale si professava prima e dopo essere entrato nella corsa presidenziale, non ha esitato  a rispondere alla chiamata apicale dell'establishment fornendo a Biden quell’aiuto che gli serviva in Texas. Martedì, dopo una lotta sul filo del rasoio, Biden si è infatti accaparrato anche il Texas con 3 punti di vantaggio su Bernie. 

 

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Foto di Elisabetta Raimondi

 

 Di chi sono le vittorie di Biden?

Ma possiamo veramente dire che siano vittorie di Biden? Di un uomo ormai chiaramente sulla strada di una demenze senile che si è evidenziata più volte anche nei dibattiti presidenziali? Di un uomo che pur essendo stato vice di Obama, l’ex presidente aveva scoraggiato a correre e che ora si trova suo malgrado a dover sostenere in mancanza di un’alternativa credibile a Sanders? Di un uomo che se già nei  dibattiti contro Sanders, che è un signore,  non sarà in grado di essere all'altezza del contraddittorio, Donald Trump, che di signore non ha nemmeno un mignolino, si mangerà in un sol boccone? 

Che Biden abbia il suo seguito è indiscutibile, dopo tutto fin dall’inizio era stato presentato come il front runner. Ma col passare del tempo col succedersi dei dibattiti era diventato sempre più chiaro che la sua tenuta non sarebbe stata all’altezza del compito. Ecco allora le puntate su Beto, su Kamala Harris, altra campionessa del doppiogiochismo, anche lei caduta come una pera dopo che Tulsi Gabbard  l'aveva  smascherata in uno dei primi dibattiti. E poi le puntate su Tom Steyer, il miliardario non odioso e razzista e repubblicano come Bloomberg, ma che comunque, come Bloomberg seppure per motivi differenti, non è riuscito a  conquistarsi il favore dei moderati e che, sempre come Bloomberg, si è dimesso il giorno dopo il supermartedì. Per fortuna non l'hanno fatto il giorno prima, almeno i loro voti non sono finiti nelle urne di Biden ironicamente aiutando, come  diceva Sunkara, Bernie. Ora i miliardi di Bloomberg potranno confluire nella campagna di Biden, visto che anche l'ex sindaco di New York si è aggregato alla banda dei sostenitori, mentre Steyer tace.

L'inaspettata e astuta strategia ha funzionato. I democratici hanno imparato dagli errori dei repubblicani e Bernie, il suo staff e tutti i commentatori che stanno dalla parte di Sanders non sono stati in grado di prevedere questo scenario. Uno scenario in cui Biden, dopo essere  stato snobbato e perfino umiliato seguito delle clamorose debacle dei  primi stati, viene  recuperato in extremis e celebrato nuovamente come il candidato naturale del partito democratico. Vien da chiedersi se Uncle Joe  renda  conto della strumentalizzazione che l’impero sta facendo di lui, esaltandone la grandezza con l’unico obiettivo di fermare Bernie e con tutta probabilità sapendo che la sua nomina darà la spianata ad altri quattro anni di Trump. Ma, come già dicevano i cartelli del 2016 a Filadelfia, "Il partito Democratico ha molta più paura di Bernie che di Trump:"

 Le reazioni di Bernie

Quanto a Sanders, nella conferenza stampa  all’indomani del supertuesday, ha fatto autocritica  ammettendo di non avere avuto la risposta che si aspettava da parte dell’affluenza giovanile e che bisognerà dunque ritoccare alcune modalità della campagna. Ma ha anche sottolineato la necessità che in questa nuova sostanziale ripartenza alla pari (visto che comunque il numero dei delegati conquistati dal Sanders con le sue forze e da Biden con le forze dell’establishment è più o meno lo stesso),  i media mainstream, schierati in forza davanti a lui con operatori e cameramen che probabilmente in segreto tifavano per lui, interrompano quegli attacchi che hanno toccato punte ignobili: «Ci hanno paragonato al coronavirus, ci hanno paragonato ai nazisti che marciavano sul suolo francese.»

Suo auspicio è anche che finalmente si possa parlare esclusivamente delle istanze politiche e delle posizioni che differenziano Bernie e Biden non in interventi di un minuto ma in maniera ampia ed esauriente. Ha spiegato ancora una volta i motivi per i quali la sua campagna è senza precedenti, perché è la prima volta che vengono sfidati per davvero i poteri forti di banche, compagnie assicurative, industrie farmaceutiche, industrie dei combustibili fossili,  organizzazioni che controllano le prigioni private sempre più affollate per l'incarcerazione di massa delle fasce minoritarie e più povere...

Insomma Bernie ha dimostrato di non aver alcuna intenzione di darsi per vinto, sebbene abbia riconosciuto apertamente la sua sconfitta. Quel che è sicuro, dato che lo ha chiaramente e dettagliatamente illustrato, chiederà a Biden di rendere conto di tante posizioni politiche prese nella sua vita. Non saranno attacchi sul piano personale, ma indispensabili richieste di giustificare le posizioni  che Joe ha sostenuto durante la sua lunga carriera ad esempio per tagliare i servizi sociali e sanitari, per proteggere delle compagnie delle carte di credito che avevano truffato i cittadini, per cominciare una guerra contri  l’Iraq ancor prima di George W. Bush.

 L'enigma Elizabeth Warren

In tutto questo panorama, schizofrenico ed imprevedibile, una delle principali incognite resta Elizabeth Warren, unica rimasta in campo, oltre a Tulsi Gabbard che però l'ostracismo democratico non ammette ai dibattiti.

Alla domanda di una giornalista se Bernie avesse sentito Warren dopo i risultati, Bernie ha detto che le aveva parlato un paio di ore prima della conferenza in una telefonata in cui lei aveva detto di avere bisogno di tempo per prendere qualsiasi decisione. Come sempre, da signore qual è. Bernie non l’ha criticata, affermando anzi il di lei diritto di prendersi tutto il tempo che le necessita per riassestare la sua campagna o per decidere di lasciarla.  Ora  sappiamo che anche Warren si è ritirata e che ha chiesto altro tempo per decidere sul suo endorsment. 

Che il suo comportamento nei confronti di Bernie sia stato negli ultimi mesi inqualificabile è un dato di fatto che richiederebbe pagine per essere raccontato nei dettagli. 

Tuttavia una possibilità di riscatto in extremis,  ed è davvero l’ultima,  ancora ce l’ha per cercare di riparare agli immensi danni che ha fatto non solo a se stessa, ma a tutto il movimento progressista, a Bernie ed anche alle donne, con quel suo insistere sulla necessità che una donna prenda il comando della nazione, strumentalizzando dunque le questioni femministe a suo esclusivo vantaggio.

Comunque il voto in Michigan, stato chiave per   il recupero di Bernie,  è la settimana prossima e Liz non ha più tempo da perdere, perché di tempo non ce nè più. Se vuole riscattarsi e mantenere fede a quei principi che comunque l’hanno resa la brava senatrice che ha dimostrato per anni di essere,  deve appoggiare Bernie. Lo avrebbe dovuto fare molto prima, almeno lo avrebbe dovuto fare in quelle 72 ore in cui anche lei ha visto prendere forma le grandi manovre di quel ricco e potente establishment che lei stessa ha combattuto per anni. Il suo aiuto avrebbe potuto concedere a Bernie qualche determinante delegato in più.

Ma, come dicevamo, si riparte dal via. Ci auguriamo che anche quella Elizabeth Warren che tanto ci aveva entusiasmato nel dibattito di luglio, quando aveva fatto squadra con Bernie dimostrando che loro due insieme avrebbero potuto essere invincibili, decida di presentarsi a quella casella di partenza. Come in luglio al fianco di Bernie.

Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

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