20101117-cemento

A Milano come a Monza le candidature possono e devono rappresentare una ribellione alla sudditanza della politica agli interessi dei palazzinari e degli speculatori


L’importanza della vittoria di Giuliano Pisapia è fuori discussione e giustamente è stato rilevato che, per tanti aspetti, assume rilievo nazionale. Da una parte, la vistosa differenza fra centro destra e centro sinistra: mentre il solo Silvio Berlusconi comunica al suo popolo la ricandidatura di Letizia Moratti, alcune decine di migliaia di cittadini hanno scelto il candidato dell’altro schieramento, e hanno scelto quello più a sinistra, il meno gradito al Pd. Questa è la seconda ragione che dà risalto alla competizione milanese. Il Pd sta sostenendo abbastanza coerentemente il ricorso alle primarie, ma a vincere, in alcuni luoghi anche assai importanti, non è il suo candidato. In Puglia ha vinto Nichi Vendola, detestato da autorevoli esponenti Pd, a Firenze ha vinto Matteo Renzi, anche lui non certo gradito allo stato maggiore dei democratici toscani. Entrambi però hanno vinto le elezioni propriamente dette. Questi risultati, più e meglio di tante analisi politologiche, dimostrano il distacco del Pd dal suo potenziale elettorato e l’incapacità di comprendere i motivi del crescente distacco dalla politica.

A Milano, correttamente, si sono dimessi i vertici del Pd e si è aperto un dibattito. La Milano democratica, che ha assistito sgomenta alla nascita della Lega e del berlusconismo, fra quattro mesi potrebbe riprendere il filo della sua storia, che va dalla Resistenza al centro sinistra a Tangentopoli. Un risultato possibile solo se si affrontano, finalmente, i nodi autentici della crisi della politica di sinistra. Chi segue questo sito sa che, da anni, abbiamo riconosciuto in Milano la capitale della rendita immobiliare e abbiamo attribuito la ripetuta sconfitta del centro sinistra all’incapacità di contrastare la mala urbanistica, della quale, anzi, il centro sinistra è stato talvolta complice. Perciò vale la pena di ricordare almeno le tappe principali della vicenda ambrosiana.

In primo luogo, il documento del 2000 “Ricostruire la grande Milano” curato da Luigi Mazza per conto di Maurizio Lupi, assessore allo sviluppo del territorio. 160 pagine in cui si recita il de profundis all’urbanistica pubblica e si trasferisce tutto il potere all’iniziativa privata. Il principio ispiratore è che i piani regolatori non servono (“i piani regolatori servono a chi non si sa regolare”, si diceva a Napoli negli anni di Achille Lauro) e sono sostituiti dalla sommatoria degli interventi edilizi. Insomma, una rivoluzione copernicana, l’urbanistica non governa l’edilizia ma ne è governata.

La seconda cosa che merita di essere ricordata è la proposta di estendere la linea milanese a tutta l’Italia. Protagonista è sempre Maurizio Lupi – intanto eletto alla Camera per Forza Italia e assiduo frequentatore di salotti televisivi – che firma il disegno di legge di riforma urbanistica noto ai nostri lettori come “legge Lupi”. Prevede esplicitamente la cancellazione del principio stesso del governo pubblico del territorio: gli atti cosiddetti “autoritativi” (quelli cioè propri del potere istituzionale) sono sostituiti da “atti negoziali” nei quali l’interesse collettivo è solo uno degli attori, insieme agli interessi immobiliari. Altri contenuti della proposta sono la cancellazione degli standard urbanistici e l’insensata incentivazione del consumo del suolo. La legge Lupi fu approvata nel 2005 dalla Camera con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra (è bene non dimenticarlo), con il consenso dell’Inu e nell’assoluto silenzio della stampa, salve pregiate eccezioni. Solo eddyburg s’impegnò in un’accanita resistenza (curando anche la pubblicazione di un pamphlet, La controriforma urbanistica), e contribuì sicuramente alla mancata definitiva approvazione della legge al Senato. In effetti una vittoria di Pirro, gli stessi risultati si sono intanto raggiunti con la moltiplicazione delle leggi di deroga alla strumentazione urbanistica.

Infine, l’esempio più noto della new wave milanese: il progetto CityLife relativo all’area dell’ex Fiera con i tre grattacieli, alti fino a 218 metri (detti il Curvo, lo Storto, il Dritto) opera di grandi star dell’architettura. È l’esito di una gara vinta dal gotha dell’immobiliarismo lombardo raddoppiando l’importo a base d’asta e dimezzando gli standard urbanistici. Succede così che una scelta decisiva per il futuro della città – dal punto di vista dei pesi edilizi, dello skyline e dei servizi – non è assunta in base a regole garanti dell’interesse pubblico ma solo a beneficio della rendita immobiliare.

Com’è noto, l’urbanistica di rito ambrosiano, è stata a mano a mano imitata da molti comuni, non solo di destra. Anche il comune di Roma ha fatto propria quella linea. Per certi versi anzi a Roma è stato peggio, perché nella capitale sono state seguite le stesse procedure adottate a Milano, con l’aggravante che intanto si cercava riparo dietro l’ipocrita paravento della pianificazione ordinaria. Le conseguenze sono note. A Roma, le elezioni del 2008 il centro sinistra le ha perdute soprattutto perché non è stato capace di comprendere la delusione di vasti strati di cittadini, soprattutto delle periferie, per l’irresponsabile politica capitolina che, invece di metter mano al promesso risanamento, ha dilatato sempre di più i perimetri della nuova edificazione, attuando un’espansione senza fine, a bassissima densità, invivibile. Si sono formati centinaia di comitati, nell’assoluto disinteresse dell’amministrazione. Così, alla fine, ha vinto Gianni Alemanno.

Su tutto ciò, su Milano, su Roma, su tutti gli altri luoghi che hanno visto la degenerazione dell’urbanistica, ma soprattutto sulle ragioni politiche che ne hanno consentito lo sviluppo, ci sembra indispensabile un’ampia discussione, su questo sito e altrove, a partire dalla vittoria di Pisapia.
A Giuliano Pisapia vanno intanto i nostri auguri di cuore.

Da Eddyburg.it