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I recenti retroscena del Partito Democratico americano dimostrano che il “fenomeno Bernie Sanders” ha segnato un punto di non ritorno che i conservatori devono contrastare con tutti i mezzi e di cui i progressisti devono approfittare. Per Nick Brana, fondatore del movimento Draft Bernie for a People’s Party, l’esempio da seguire è quello di Abraham Lincoln.

 

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cinque mesi dalla batosta di novembre come si sta riorganizzando il Partito Democratico americano? Ha preso atto che la sottovalutazione di Sanders e di Trump è stata un grave errore? Che cosa sta facendo per riagganciare quegli americani stroncati dalla crisi che avevano inutilmente sperato che il partito tornasse ad essere come ai tempi di F.D. Roosevelt e del New Deal? C’è l’intenzione di modificare quella politica ormai consolidata che porta Noam Chomsky e Gore Vidal a dire che gli Usa “sono governati da un unico partito con due ali destre”?  O c’è piuttosto l’accanimento dell’establishment a non voler cambiare rotta pur di non perdere i suoi privilegi?

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Mike Fluggennock disegna il cimitero delle conquiste democratiche, conquistate a partire da quasi un secolo fa, che il Partito Democratico è riuscito a seppellire negli ultimi decenni.

 Delle contraddizioni del Partito Democratico, e di come si fosse meritato la sconfitta, ho scritto su queste pagine durante la campagna elettorale. (A Filadelfia nei giorni della National Convention del Partito Democratico ; Trump-Clinton. Gli americani e il male minoreI guai infiniti di Hillary e la strategia del ragno di BernieDonald Trump presidente degli Usa). 

Ne ho scritto dopo aver vissuto in prima persona una fase cruciale della rivoluzione sandersiana a Filadelfia nel luglio scorso. Erano i giorni in cui la Democratic National Convention decretava, contro ogni buon senso e a dispetto di onestà e legalità, la vittoria di Hillary su quello scomodo personaggio in pochi mesi divenuto famoso come il papa, che si era messo col Democratic Party per dare una chance nazionale alla sua piattaforma progressista. Erano i giorni in cui i cartelli dei manifestanti rivelavano verità ora difficilmente contestabili, ossia che le probabilità di Sanders di battere Trump erano superiori a quelle di Hillary  ma che Il Partito Democratico aveva più paura di Sanders che di Trump. 

Torno sull’argomento dopo alcuni mesi di silenziosa osservazione, effettuata principalmente attraverso l’informazione indipendente, poiché alcuni eventi recenti permettono di tirare alcune prime somme su quanto il Democratic Party abbia o non abbia imparato dalla sconfitta.

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Filadelfia, luglio 2016, cartelli durante le manifestazioni nei giorni della DNC

La strumentalizzazione di Bernie Sanders da parte dell’establishment e i nuovi movimenti progressisti

Che l’establishment del Partito, a dispetto di tanti bei discorsi, non abbia alcuna intenzione di cambiare è dimostrato da diversi fatti, tra cui: l’elezione del “fantoccio di Wall Street” Chuck Schumer e la riconferma della miliardaria Nancy Pelosi a leader di minoranza di Senato e Camera; la carica di co-leader della “Trump War Room” affidata all’ex-capo della campagna elettorale di Hillary John Podesta, che fiumi di email dimostrano avere boicottato Sanders; il voto di parecchi dem ai ministri di Trump (unica eccezione la unanimemente bocciata Ministra dell’Istruzione Betzy De Vos); e soprattutto l’elezione il 25 febbraio scorso di Tom Perez, altro emblema del corporate money politician, a nuovo presidente del Democratic National Commettee.

 D’altra parte la nascita di movimenti progressisti, come Our RevolutionJustice Democrats e Draft Bernie for a People's Party, sorti dopo la sconfitta di Bernie nel  2016, ribadisce la contraddittorietà, così fisicamente visibile nei giorni di Filadelfia, dell’area “democratica”. E soprattutto che il “fenomeno Bernie Sanders” ha segnato un punto di non ritorno con cui il partito deve fare i conti in un modo o nell’altro. Ecco perché può essere interessante osservarne le mosse  in prospettiva delle elezioni di medio termine del 2018 e della presidenziali del 2020.

Se a sinistra la  piattaforma di Sanders è diventata una sorta di bibbia da cui prendono il via diversi movimenti e correnti, in zona centro e destra si fa di tutto per strumentalizzare il senatore poiché, pur non avendo intenzione di accoglierne le proposte politiche, tutti sanno che ormai il partito ha bisogno di lui, dei suoi voti, della sua mailing list e del cospicuo tesoretto raccolto fuori dal giro delle corporation. E la trappola del “facciamo fronte unito contro Trump” è la strategia.

In uno dei suoi interventi sull’argomento Jordan Chariton della rete The Young Turks ha severamente ammonito Bernie a smettere di condividere il palco con Chuck Schumer e con politici del suo stampo. Costoro neanche si sognano di chiamare Sanders quando fanno le trattative con i miliardari che li finanziano, ma traggono grandi vantaggi farsi dal vedere con lui in situazioni pubbliche di "resistenza" contro Trump. Al momento del voto quella enorme fetta della popolazione non accuratamente informata ricorderà solo di aver visto Schumer e suoi insieme a Bernie e tanto gli basterà per considerarle persone di cui fidarsi, quando le loro posizioni sono lontane anni luce sulle cose che davvero contano per la gente normale.

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Bernie Sanders e Chuck Schumer

Perché l’elezione di Tom Perez  è un ennesimo affronto ai progressisti

Pronta a fare eleggere Hillary con ogni mezzo, i vertici del Comitato Naionale Democratico erano stati inchiodati a due giorni dal suo inizio in luglio dalla prima tranche di email rilasciate da Wikileaks (e poco importa se i russi già allora prontamente incolpati c’entrassero o no). Esse mostravano le manovre anti-Bernie della sua presidente Debbie Wassermann Schultz, costretta a dimettersi per salvare almeno un’apparenza di decenza. La carica era passata alla vice Donna Brazile, anche analista politica della CNN, nonostante neppure lei risultasse immacolata, tanto che il network l’aveva temporaneamente sospesa. Quando poi nei mesi seguenti altre email avevano provato che Brazile aveva passato a Hillary domande spinose che gli spettatori le avrebbero posto nei faccia a faccia con Sanders alla CNN, la rete l’ha licenziata. Ma la signora Brazile ha comunque potuto continuare a presiedere l’organo più importante del partito democratico fino al 25 febbraio scorso.

 

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Le email che hanno portato al licenziamento di Donna Brazile dalla CNN.

Ecco perché non sorprende l’elezione di Tom Perez, appositamente reclutato per correre contro i candidati progressives con lo scopo di impedire lo spostamento del partito verso sinistra.

Ex Ministro del Lavoro di Obama, il personaggio “si è mostrato morbido con istituzioni finanziare colpevoli di crimini. Perez è la scelta dell’establishment perché è abilissimo nel raccogliere grandi somme di denaro e lo sarà in futuro raccogliendolo da corporazioni e superpacs.” Sul suo sito Counter Propa e su Huffington Post così si esprime H.A. Goodman, che nello stesso articolo convalida anche le tesi più volte esposte su queste pagine.

Se Debbie Wassermann Schultz e Donna Brazile non avessero fatto vincere Clinton su Sanders, non dovremmo preoccuparci di bandi agli immigrati e di muri” (né di attacchi militari improvvisati, possiamo aggiungere oggi). Bernie stava raccogliendo più soldi di quanti ne servissero per essere competitivo senza bisogno di enormi superpac e megadonatori. Con più dibattiti all’inizio e con una DNC che non avesse cospirato contro di lui, Sanders avrebbe vinto la nomina democratica e la presidenza. (...) Come presidente della DNC Tom Perez garantisce che i soldi di corporation e superpac decidano il futuro del Partito Democratico. Alla fine questo futuro vedrà otto anni di presidenza Trump. Bernie Sanders e le persone come Samuel Ronan  (uno dei concorrenti di Perez) motivano gli elettori promuovendo ideali progressisti. Per l’ex Ministro del Lavoro di Obama è vero l’opposto.”

D’altra parte i soli 35 voti di scarto della vittoria 235 a 200 su Keith Ellison, favorito tra i progressisti e primo congressista musulmano della storia, nonché la carica di vicepresidente a questi conferita, possono essere considerati un passo avanti per i progressisti, sebbene alcuni analisti, che non amano particolarmente Ellison per qualche scivolone verso il centro-destra e che avrebbero di gran lunga preferito Samuel Ronan, vedano questo connubio con circospezione.
In ogni caso la vicepresidenza non è la presidenza e il caloroso invito di Perez all’unità con la promessa di collaborare con i progressisti sa tanto  di quella strumentalizzazione sopra descritta.

 

I Justice Democrats e il loro programma

Presentato il 23 gennaio 2017, tre giorni dopo l’insediamento di Donald Trump, il movimento Justice Democrats si propone di riformare dall’interno il Partito Democratico che “alleandosi con Wall Street invece che con i lavoratori e le lavoratrici ha permesso ai repubblicani di impossessarsi della maggior parte delle cariche legislative ed esecutive degli Stati, della maggioranza del Congresso e della Presidenza.” 

I suoi fondatori sono figure di spicco dell’area progressista e sandersiana come Cenk Uygur di The Young Turks e Kyle Kulinsky  di Secular Talk ed ex dirigente della campagna di Bernie.  

Obbiettivo dei Justice Democrats è rimpiazzare tutti i politici del partito sostenuti dalle corporation con persone che faranno gli interessi degli elettori e non dei finanziatori, perché “è ora di ricostruire il Partito Democratico da zero per farlo diventare un partito che rappresenti il popolo americano con un programma progressista”.  

Un programma i cui primi punti sono connessi alla questione del corporate money, compresa la necessità di abolire i privilegi fiscali di cui miliardari e corporations godono sulla pelle della gente comune. Tra gli altri figurano in sintesi: opposizione a qualunque forma di razzismo, sessismo e discriminazione; adeguamento del salario minimo al costo della vita e concessione ai lavoratori di ferie, malattia e congedi familiari; sanità e istruzione come diritti e non come privilegi; drastico taglio alle spese militari e riconversione in politiche sociali interne; fine della guerra alla droga attraverso legalizzazione, tassazione e regolamentazione; blocco e rinegoziazione di trattati internazionali commerciali che hanno danneggiato la classe lavoratrice; proibizione della vendita di armi a paesi che violano i diritti umani come Egitto e Arabia Saudita e regolamentazione della vendita interna; riforma della polizia, del sistema carcerario e delle leggi sull’immigrazione; abolizione della pena di morte; difesa dei diritti delle donne… Insomma una piattaforma molto dettagliata che si conclude così:

 "Queste idee rappresentano ciò che si supponeva il Partito Democratico avrebbe sempre rappresentato. I sondaggi dimostrano che queste posizioni politiche sono straordinariamente popolari. In effetti in tutto il mondo industrializzato queste idee sono considerate moderate. Questo è un movimento sulla libertà e la giustizia. Ed è un movimento fatto da e per la classe lavoratrice. Se i Democratici si rifiutano di abbracciare questa piattaforma, continueremo a perdere, sia contro i Repubblicani sia contro noi stessi. Il futuro del Partito Democratico è l’ala della giustizia non l’ala del potere costituito.”

 

Bernie Sanders nuovo Abraham Lincoln”  e Draft Bernie for a People’s Party

Più o meno contemporaneo a Justice Democrats anche Draft Bernie for a People’s Party è nato da una costola sandersiana, dato che il suo fondatore Nick Brana era un collaboratore di punta di Bernie prima nella campagna elettorale e poi in Our Revolution. Uscito dal movimento insieme ad altri attivisti quando il cambio di dirigenza ha tentato di accettare finanziamenti da ricchi donatori che Sanders aveva precedentemente rifiutato, Nick Brana si è lanciato in questo nuovo progetto che mira alla creazione di un People’s Party guidato da Bernie. Un progetto osservato con interesse da diversi protagonisti dell’informazione indipendente tra cui Lee Camp, Jimmy Dore, Paul Jay, Tim Black (nomi che a noi non dicono nulla ma che negli Usa hanno un seguito consistente) i quali hanno invitato  Brana nelle loro trasmissioni.

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Lee Camp (a sinistra) ospita Nick Brana nella sua trasmissione Redacted Tonight

Convinto dell’impossibilità di riformare il Partito Democratico perché troppo saldamente nelle mani di un’ala destra corrotta, organizzata e imbattibile che continuerà a fare di tutto per affossare i progressisti, Brana è altresì consapevole di come sino ad oggi sia stato impossibile per un terzo partito attaccare il bipartitismo, protetto da regole che stroncano sul nascere qualsiasi tentativo di incrinarlo. Ma ora c’è Bernie Sanders e questo fa la differenza.

 "Il NY Times ha riportato che in queste elezioni l’82 per cento della gente era disgustato da questi due candidati con la più bassa popolarità della storia  eppure né il Green Party né il Libertarian Party sono riusciti a raggiungere quel 5% che avrebbe almeno consentito loro di accedere al denaro riservato allo status di partito. Questo la dice lunga su come il sistema riesca ad impedire la creazione di un terzo partito. Tuttavia la strada per costruire un terzo partito esiste… "

 Si tratta della strada percorsa da Abraham Lincoln negli anni ’50 del 1800, quando il sistema era già saldamente ancorato al bipartitismo con il Whig Party e il Democratic Party. Nel 1854 le divisioni interne agli Whig sulla questione della schiavitù portarono alcuni di loro ad unirsi ai democratici schiavisti ed altri al piccolo partito regionale abolizionista di Abraham Lincoln, il Partito Repubblicano, che già nel 1856 riuscì a rimpiazzare la maggioranza Whig, per poi vincere la Presidenza nel 1860. 

 Seguendo quella traiettoria e lavorando sodo già nel 2018 si possono sostituire i democratici corrotti al Congresso e poi puntare alla presidenza nel 2020. Apparentemente non sembrerebbe un piano poi così diverso da quello dei Justice Democrats, i quali però non parlano di fuoriuscita né si pronunciano sul futuro candidato presidente. Dice ancora Brana:

"Il concetto è che in pratica esiste già un partito dentro il partito, ossia quello creato da un personaggio di grande rilievo e popolarità, come è stato per Lincoln e come è ora per Bernie, e che per di più è il partito di maggioranza avendo il seguito della larga base popolare. Quindi basta prendere questo partito di maggioranza esistente all’interno del partito e portarlo via per fondare una nuova istituzione che di fatto rappresenta ciò che la gente vuole. (…) Ecco la traiettoria percorribile ora e con possibilità di successo decisamente maggiori. Rispetto ai tempi di Lincoln la società è molto meno divisa. Allora c’era il problema della schiavitù che era molto più spinoso delle questioni sul tavolo oggi. Oggi c’è la quasi unanimità della gente su temi come la necessità di togliere i soldi dalla politica  e di risolvere le enormi diseguaglianze sociali." 

Sebbene Bernie per il momento non si pronunci, Nick Brana è convinto che l’entusiasmo delle migliaia di persone che giorno dopo giorno aderiscono all’iniziativa convincerà il senatore, quando tutto sarà pronto, a mettersi a capo del “People’s Party” unificando tutti i movimenti che a lui si ispirano.
Secondo le stime di Brana il "partito della gente" già in partenza potrà contare su circa la metà del Partito Democratico e ad esso si aggiungeranno indipendenti, astensionisti, giovani, millennials, black lives matter, operai bianchi, elettori dei terzi partiti, quelli che hanno votato Trump per rabbia e persino quei conservatori che semplicemente ambiscono a migliori condizioni di vita.

Considerando che il “fenomeno Sanders” è più vivo che mai, nonostante Bernie sia stato bloccato nella corsa verso la Casa Bianca dai boicottaggi di DNC e mainstream media, dai milioni di voti non conteggiati alle primarie e dai voti di quel balordo sistema dei superdelegati i quali hanno ignorato le preferenze della gente per proteggere le loro poltrone, le previsioni di Brana potrebbero avverarsi. E' ancora troppo presto per dirlo, ma noi staremo a vedere.

 Per il momento tra strumentalizzazioni varie, interessi personali, resistenze conservatrici, comitati riformisti, movimenti scissionisti e chi più ne ha più ne metta, la varietà del Partito Democratico americano ricorda un po' quello italiano. Peccato che il “fenomeno” nostrano di sandersiano non abbia proprio niente.

Gli autori di Vorrei
Elisabetta Raimondi
Elisabetta Raimondi
Disegnatrice, decoratrice di mobili e tessuti, pittrice, newdada-collagista, scrittrice e drammaturga, attrice e regista teatrale, ufficio stampa e fotografa di scena nei primi anni del Teatro Binario 7 e, da un anno, redattrice di Vorrei.
Ma soprattutto insegnante. Da quasi quarant’anni docente di inglese nella scuola pubblica. Ho fondato insieme ad ex-alunni di diverse età l’Associazione Culturale Senzaspazio.

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