Regole (parte I)

«C'è un paesaggio interiore, una geografia dell'anima;
ne cerchiamo gli elementi per tutta la vita.
Chi è tanto fortunato da incontrarlo,
scivola come l'acqua sopra un sasso, fino ai suoi fluidi contorni,
ed è a casa.
»

Josephine Hart

 

Dicevo nel primo paragrafo di questo saggio un po’ anticonformista, e a puntate, che le categorie di paesaggio che ancora dominavano la nostra infanzia, ora non ci sono più, o comunque stanno affrontando una mutazione che, se vogliamo proprio guardarci dentro, a questo paesaggio, non possiamo trascurare.

Certo che urbano e rurale ci sono ancora.. ma sono meno definiti, offrono allo spettatore esperienza meno intense, meno qualitative, che provocano disagio per la minore aderenza ai modelli dati. Urbanità e spazi rurali si compenetrano maggiormente, o recitano peggio i loro rispettivi ruoli: hanno perso qualcosa delle loro rispettive personalità, si stanno avvicinando ma, ciò che più infastidisce l’occhio (che, per natura, ha bisogno di varietà), stanno perdendo caratteristiche connotazioni (in questo caso) casatesi. Le nuove case, le nuove vie, i nuovi marciapiedi, sono tutti adattati ad una mentalità omologante. Non ci sono più particolarità “solo” casatesi.

<>Questo fa male, fa male a noi romantici o sensibili del paesaggio, fa male perché, come si può limpidamente osservare, vi sto raccontando il mio quarto di secolo parlando di paesaggi a me cari, parlando dei muri, degli alberi e dei colori delle case casatesi: ne vogliamo desumere una prima regola? anche no, ma desumiamola comunque: il paesaggio parla delle identità. Identità dei singoli individui che lo abitano e, con la stessa facilità, dell’aria che si respira tra la sua popolazione; l’atmosfera immateriale, insomma: il dato sensibile ma invisibile.

<>Ci fa male vedere che il paesaggio muta e muta fuori controllo, questo male scaturisce da un sentimento di appartenenza, da una necessità che, ahimè, in qualcuno ancora è viva, di identificarsi con un luogo che chiamiamo casa, un luogo in cui vivere. Fa male vedere che nonostante si sia amministrati da brave persone, stimabili, che conosciamo, questo no, non basta a preservarci dal cattivo spettacolo del cambiamento, che avviene in fretta e disordinatamente. Detta così sembra la solita battaglia da reazionari, gelosi delle proprie cose, difensori dei propri privilegi acquisiti, ma non lo è: l’ultimo motivo per cui ci affliggiamo è il fatto che noi abitiamo qui e che questo è il nostro giardino. L’ultimo.

A dimostrazione di questo, quando mi reco in montagna non sono meno incline a sorprendermi meravigliosamente d’incontrare popolazioni che intrattengono rapporti di armoniosa convivenza con il proprio territorio; o, almeno, più armoniosa della nostra.

<>Seconda considerazione, se si vuole: il paesaggio è un sentimento. Il pluricitato Turri fu tra coloro che meglio sintetizzarono quanto segue: il paesaggio è nel momento in cui qualcuno lo guarda, e quello sguardo conta qualcosa nella sostanza finale del paesaggio.

<>Le amministrazioni comunali, ma in genere le istituzioni, non badano a sufficienza alla difesa del territorio, sono strutture che fanno l’ordinario, e la difesa dei sentimenti e dei valori antropologici – lo so, suona ancora alto, portate pazienza.. - come ad esempio una bella architettura del passato, una cascina, a quelle no: a queste cose una ordinaria amministrazione non bada. <>Si cura d’altro: il commissariato di polizia, le telecamere in ogni dove, le rotonde.

<>Nessuno difende il paesaggio, poiché in pochi ne colgono il profondo nesso con l’animo umano: questa non la inserisco tra le regolette, poiché è soggettiva, tremendamente soggettiva. Consideratela un’appendice della precedente: bisogna essere innamorati di paesaggio per capirlo. Qui, detto amaramente, pare che siano in pochi a capire. Pochi innamorati. Voi che leggete, tranquilli, lo so, siete tra quei pochi.

 


Deposito ad uso agricolo (Monte di Rovagnate, autunno 2007)

 

<>Se in molti lo capissero, basterebbe uno sguardo allo sfondo delle nostre vite, per smetterla di lamentare problemi inutili, rincorrere cose inutili. Se lo capissimo. E’ una verità quasi orientale, sarebbe il quid che tipicamente preannuncia il “risveglio”.

<>Andiamo avanti, e andiamoci subito tramite la quarta proposizione paesaggistica: il paesaggio plasma la società. Aggiungo, per vizio: se la società se ne accorge, del paesaggio.

A questo punto, non posso esimermi e devo rispondere alla domanda conseguente: la società di oggi si accorge del paesaggio? Difficile, ci provo. Diciamo che siamo in un modello sociale votato a distrarci dalle semplici verità della vita, che ci spinge – pare senza troppa fatica - a inseguire i servizi più inutili, a pretendere espansioni in tutti i campi, occultando i problemi che queste (e la dose di entropia che esse generano) provocano, andando ad intaccare quanto c’è e trasformandolo presto in passato, in “ciò che non sarà più”.

Ora, non è questa la sede in cui stabilire se sia meglio tenerci quanto c’è, spegnendo tutto, barricandoci nei nostri giardini, oppure se sia il caso di smantellare a più non posso, sperando di ritrovare senso nel nuovo scenario. Mi interesserebbe di più capire un altro aspetto della vicenda, un aspetto più sotterraneo: siamo distratti dal paesaggio - questo penso che lo si possa sostenere senza particolare rischi di smentite, insomma, a parte qualche lamentela quando tirano su un capannone proprio di fianco a casa, non è che passiamo le nostre giornate a dannarci dei cambiamenti - ma quanto? il paesaggio plasma la società anche quando quest’ultima non se ne accorge?

Questo, cari miei, sarà argomento della prossima puntata. Prima di congedarmi, ricordo uno degli assunti iniziali: è un esperimento, serve a pensare. Pensateci.